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Dick Marty, invictus

Amava Albert Camus e nelle parole dell'autore di ‘Lo straniero’ aveva individuato la perfetta sintesi del suo stato d'animo

In sintesi:
  • Ha pagato a caro prezzo le gravi lacune di diplomazia e Procura elvetiche, intervenute presso Belgrado mollemente e con inspiegabile ritardo
  • Un uomo coraggioso, che lascia un grande vuoto
(Ti-Press)
29 dicembre 2023
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I suoi riferimenti letterari e intellettuali erano innumerevoli, attingeva a piene mani alla tradizione illuministica e al retaggio umanistico, aveva fame di senso, di sapere, bisogno di conferme, più di tutti amava Albert Camus. Ed è nelle parole dell’autore di ‘Lo straniero’ che Dick Marty aveva individuato la perfetta sintesi del suo stato d’animo, quando la malattia lo aveva precipitato nel tormento, lasciandogli ormai solo qualche squarcio di tempo: “Ho compreso che nel bel mezzo dell’inverno vi era in me un’invincibile estate”. L’istante di una luce abbagliante, prima del buio, poche settimane di vita, in cui ha voluto offrire la sua testimonianza, schietta e intima, al pubblico accorso in massa al Lac di Lugano per stringerlo in un grande abbraccio collettivo. La presentazione del suo libro (‘Verità irriverenti’), testamento politico e personale scritto di botto, nella feroce urgenza del male incurabile, trasformata in uno struggente commiato, un vivido corale atto d’amore. “Non me l’aspettavo, quando ho visto tutta quella gente sono rimasto paralizzato” ci aveva confidato nel corso del suo ultimo viaggio, assieme alla figlia e alla nipotina (Malaika che in swahili significa “angelo”, ci teneva a precisare) per ritirare a Strasburgo un importante premio del Consiglio d’Europa. Un’onorificenza dovuta (ma tardiva) per le sue delicate missioni quale relatore incaricato di indagare su roventi dossier, dai massacri in Cecenia, alle prigioni segrete della Cia, al traffico di organi nella guerra in Kosovo. Il politico (consigliere di Stato, poi consigliere agli Stati) non aveva mai in fondo smesso le vesti del magistrato, ammantando progressivamente l’animo del ferreo procuratore, con una forte dose di umanità e di senso per la giustizia, quella più ampia, vera, sociale. Certo, con gli anni Marty si è vieppiù allontanato dalla politica partitica, ma forse sarebbe meglio dire che è quest’ultima, imbottita di populismo retorico, particolarmente a suo agio con il cinico opportunismo, avulso dai valori di onestà e umana solidarietà, ad avere scacciato i politici migliori. Lui era indubbiamente tra questi: non cadiamo nell’agiografia di circostanza, raccontiamo semplici verità se scriviamo di rettitudine morale, di tenacia o di coerenza quando si è trattato di denunciare i super profitti della finanza, gli squilibri sociali, l’aggressione russa in Ucraina o la mattanza in Palestina. Gli ultimi anni non hanno risparmiato né a lui né ai suoi cari, inquietudini e sofferenze: sotto scorta dal dicembre 2020 in seguito a un complotto con cui gli ambienti dell’“intelligence” serba avrebbero dovuto ucciderlo (per poi far ricadere la colpa sui kosovari), Dick Marty ha indubbiamente pagato a caro prezzo le gravi lacune di diplomazia e Procura elvetiche, intervenute presso Belgrado mollemente e con inspiegabile ritardo. Un trauma che ha posto sulla sua famiglia la spada di Damocle di una costante minaccia, che lo ha amareggiato infliggendogli un senso di tradimento e abbandono. Come in Invictus (“indomito”), poesia di William Henley resa celebre da Nelson Mandela, Dick Marty ha tuttavia estratto gli artigli, ha continuato a lottare fino all’ultimo: “Non importa quanto impietoso sia lo scorrere della vita, Io sono il padrone del mio destino, Io sono il capitano della mia anima”. Se ne va Dick Marty, un uomo coraggioso. Lascia un grande vuoto.