Dal riconoscimento Pro Merito del Consiglio d’Europa ad Albert Camus, passando per la malattia e i ripensamenti. Intervista a tutto tondo a Dick Marty
L’ex magistrato e politico ticinese è stato insignito ieri a Strasburgo del prestigioso Premio Pro Merito del Consiglio d’Europa, per la sua attività di relatore nelle insidiose inchieste sulle carceri segrete della Cia e sul traffico di organi in Kosovo. La cerimonia si è svolta nella residenza dell’ambasciatore svizzero. Un conferimento non privo di qualche attrito e che giunge nel momento più delicato della vita di Dick Marty, con il quale abbiamo dialogato.
A Strasburgo lei è andato con sua figlia e sua nipote, la figlia di sua figlia.
Sì, lo abbiamo deciso assieme in famiglia: tre generazioni che hanno subìto ognuna le conseguenze di quanto successo negli ultimi anni. C’è in particolare Malaika, la nipotina, quella che più di tutti in famiglia ha sofferto. Malaika vuol dire “angelo” in swahili e anche in arabo.
Questo conferimento, che le fa onore, non è tuttavia esente da qualche accenno polemico da parte sua.
Di fronte agli attacchi calunniosi da parte del premier albanese Edi Rama, che mi ha trattato come fossi Goebbels accusandomi di aver manipolato il rapporto, mi aspettavo che il Consiglio d’Europa prendesse una posizione chiara, cosa che non ha fatto. Lo avrebbe dovuto fare non tanto per difendermi, ma a tutela dei vari relatori che hanno condotto inchieste difficili. Oltretutto il rapporto sul Kosovo era stato approvato all’unanimità dalla commissione giuridica e con il 90% dei voti dell’Assemblea parlamentare. La macchina giudiziaria internazionale che si è messa in moto sulla base delle mie conclusioni ne ha di fatto confermato la validità arrestando i presunti colpevoli. Ma si vede che il Consiglio d’Europa non voleva creare problemi con l’Albania.
Ha mai pensato di rifiutare il premio in segno di protesta?
Sì, ci ho pensato. Anche perché ritengo che chi fa il proprio dovere non meriti premi. Poi un amico ambasciatore mi ha convinto ad accettarlo perché il “Pro merito” in fondo non riguarda solo me, ma chi con me ha lavorato e lottato. Anche loro erano presenti alla cerimonia che abbiamo deciso di far svolgere in forma un po’ discreta, non troppo pubblica. In fondo il conferimento può essere visto come un incoraggiamento a chi indaga su dossier scottanti.
Lei negli ultimi anni, a partire dal dicembre del 2020, è stato costretto a vivere sotto sorveglianza in seguito a un complotto in cui ambienti dei servizi segreti serbi avrebbero dovuto eliminarla per far poi ricadere la colpa sui kosovari. Un’esperienza dura per le lei e i suoi cari, che ha creato non poca amarezza nei confronti del Ministero pubblico e delle autorità politiche federali. Cosa secondo lei non ha funzionato?
Sin dall’inizio le informazioni dell’intelligence indicavano che c’erano movimenti per eliminarmi e si poteva pensare che i mandanti fossero vicini al presidente kosovaro Thaçi, arrestato poco prima, nel novembre del 2020. In realtà si sapeva che non era così, e sarebbe bastato un intervento diplomatico energico a Belgrado: svelare il piano, il trucco, avrebbe significato sventare il tentativo di assassinio. Tutto questo poteva essere fatto anche senza il bisogno di rivelarlo pubblicamente. Ma non è stato fatto.
Perché?
Non lo so, forse per non creare tensioni tra Kosovo e Serbia. Ma come detto si sarebbe potuto agire con discrezione, dietro le quinte.
Dick Marty, negli ultimi anni lei ha scritto tre libri, ogni volta dettati dall’urgenza: il primo nel 2018 subito dopo un attacco di amnesia totale, poi un secondo quando fu messo sotto sorveglianza e l’ultimo, ‘Verità irriverenti’ (Edizioni Casagrande) scritto dopo una di quelle telefonate che non si vorrebbero mai ricevere e che le annunciava la malattia contro la quale sta ora lottando. Lei afferma che ha scritto per se stesso, eppure il libro ha avuto un’eco e un impatto importanti, come si è potuto constatare in una affollatissima serata pubblica al Lac di Lugano.
Ha ragione, io in realtà non pensavo che avrebbe avuto un tale impatto. Però il primo riflesso di scrivere subito è stato in fondo una sorta di autoterapia. In seguito mi sono reso conto che quanto scrivevo andava un po’ oltre la mia persona, che la mia testimonianza su quanto mi è successo così come le riflessioni sulla democrazia potevano avere un interesse pubblico.
L’epigrafe di un capitolo riporta una citazione dello scrittore Albert Camus: ‘Imparavo finalmente nel cuore dell’inverno che c’era in me un’invincibile estate’. Il pensiero naturalmente corre alla malattia contro la quale sta lottando.
Sì, anche se non so fino a quando sarò in grado di lottare. Quella telefonata del medico è stata un pugno nello stomaco. Ma ho voluto reagire e fare di questa malattia una testimonianza. Da sei mesi allo Iosi mi iniettano sostanze neurotossiche. Ho incontrato gente che un po’ si vergogna, nasconde la malattia. Per molti il cancro è ancora tabù. All’inizio non ne parlavo, poi mi sono reso conto dell’importanza di testimoniare. Sul tipo di tumore che mi ha colpito si brancola ancora nel buio, da qui l’importanza della ricerca e della lotta contro i tumori.
Credo che questa sua trasparenza sia importante e apprezzata. Nella serata pubblica al Lac di Lugano a inizio novembre le è stato tributato un grande abbraccio collettivo.
Guardi, non me l’aspettavo, non mi era mai successo. Quando sono entrato nella hall e ho visto tutta quella gente sono rimasto come paralizzato. Era come un grande commiato. Poi nei giorni successivi ho anche ricevuto un numero incredibile di lettere, molto belle, intense.
Forse la manifestazione della stima per una personalità che incarna valori forti. Quelli che magari a torto o a ragione si considera che siano venuti un po’ a mancare nella politica, anche nel suo partito, il Plr, che secondo alcuni ha perso per strada certi valori e la sua anima sociale.
Mi sembra che sia proprio così. Vede, una volta se usciva un libro di Ralf Dahrendorf si creava subito un dibattito tra le due anime del partito che si confrontavano, argomentavano. Col tempo il confronto è scomparso, oggi si pensa all’immediatezza, al risultato tangibile.
La giustizia legata a profondi valori morali, incarnata dal personaggio di Antigone, è una sorta di filo conduttore di Dick Marty. Però nel suo percorso lei è stato anche procuratore, una figura che potrebbe assomigliare più a quella di un inquisitore che non alla celebre eroina della tragedia greca.
Vede, contrariamente all’avvocato che difende qualsiasi causa, il procuratore apre l’incarto e accusa solo quando ci sono gli estremi di legge e quando è convinto della colpevolezza.
Dunque nulla da rimproverarsi? Nessun errore?
Ci sono delle circostanze in cui ti accorgi che la legge che sei chiamato ad applicare non è giusta. Come nel caso della penalizzazione del consumo di droga. Pensavamo che colpendo i consumatori avremmo potuto debellare il fenomeno. Si facevano dei processi per qualche grammo di hashish. Ma ho poi capito che così non funzionava e abbiamo cominciato a mirare più in alto: non più qualche grammo di droga leggera, ma i cento chili di eroina del 1987. Ho dunque cambiato idea: criminalizzare il consumo e i giovani era un errore.
Lei poteva molto probabilmente diventare consigliere federale. Si pente di non aver tentato la scalata?
No, assolutamente. Non mi considero un uomo di potere ma piuttosto di contropotere. In democrazia il contropotere è fondamentale, ed è anche in parte il ruolo della giustizia. È il lavoro che ho cercato di svolgere come magistrato assieme a Paolo Bernasconi. Per questo siamo stati spesso malvisti: nelle rielezioni in Gran Consiglio eravamo quelli che prendevano meno voti.
Come dire che se è molto popolare in certe cerchie, non è proprio ben visto in altre.
Esattamente.
Anche se poi è stato sempre eletto brillantemente.
Vero, ma perché pescavo voti un po’ ovunque.
In particolare a sinistra.
Sì, soprattutto, ma pure sorprendentemente a destra, forse perché avevo delle posizioni chiare senza troppe concessioni. Ma non ho nessun merito, è solo una questione di carattere, a me non piace fare discorsi che devono piacere a tutti.
Il suo profilo politico non è solo nazionale, ma anche internazionale. Uno dei rarissimi ticinesi ad avere notorietà fuori dalle frontiere. Allora le chiedo la sua opinione su quanto succede in Medio Oriente.
Bisogna premettere che il Medio Oriente fu spartito nel 1916 da Francia e Inghilterra senza nulla chiedere a chi ci abitava. Così come l’anno successivo Lord Balfour non chiese agli arabi se erano d’accordo con la sua offerta a Lord Rothschild, referente della comunità ebraica. Da sempre i palestinesi sono stati dimenticati e sopraffatti. L’Occidente si porta addosso un senso di colpa per la tragedia della Shoah. Io non rimetto in discussione l’esistenza di Israele, ci mancherebbe. Ma non bisogna dimenticare che i sionisti si sono imposti anche con atti terroristici, tra cui la distruzione dell’Hotel King David, l’uccisione di migliaia di arabi e la cacciata di oltre 750mila palestinesi. Questi sono fatti storici. Così come è una realtà che mai si è dato uno Stato ai palestinesi. Tutto questo naturalmente non giustifica il massacro del 7 ottobre. Ma Netanyahu da anni ha creato due mostri: uno, nell’intento di dividere i palestinesi, è Hamas e in particolare la sua ala militare, l’altro è il governo di estremisti che lui stesso dirige.
Albert Camus è uno dei suoi autori prediletti. Nel discorso di accettazione del premio Nobel del 1957 disse tra le altre cose che la verità è sempre difficile da conquistare, la libertà è pericolosa, dura da vivere, quanto esaltante. La storia sembra andare in tutt’altra direzione. Camus è in una certa misura tra i perdenti della Storia. Anche Dick Marty forse, in un’epoca in cui trionfano chiusura, intolleranza, irrazionalità, può essere annoverato tra gli sconfitti.
Ma è proprio per questo, per le belle parole di Camus, che non bisogna salire sul carro dei vincitori, che bisogna resistere. De Gaulle ha lanciato la resistenza al nazismo con una decina di persone. E non sapeva o non pensava di poter vincere. Non bisogna seguire la direzione del vento, ma orientarsi verso quella luce, quell’utopia in cui si annida la verità. Magari tu non ci arriverai, ma forse qualcuno che segue la tua strada un giorno ce la farà.