Luganese

Ex Macello, la Polcantonale sigilla gli incarti per la Procura

Va per le lunghe la seconda inchiesta sulla demolizione del centro autogestito: la Cantonale ha oscurato diverse parti dei documenti richiesti da Pagani

Le macerie all’indomani della demolizione
(Ti-Press)
1 dicembre 2023
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Ancora un colpo di scena nelle indagini sulla controversa demolizione di una parte dell’ex Macello di Lugano, che ospitava il centro sociale autogestito Il Molino, avvenuta nella notte tra il 29 e il 30 maggio 2021. Protagonista di quest’ultimo capitolo è la Polizia cantonale che, rispondendo a sollecitazioni del procuratore generale Andrea Pagani, ha fornito alla Procura documenti dapprima oscurati e successivamente sigillati. Materiale necessario per lo svolgimento dell’inchiesta e che ora si trova nell’Ufficio del giudice dei provvedimenti coercitivi (Gpc), che dovrà decidere se liberare l’incarto e riconsegnarlo al pg per il prosieguo delle indagini oppure no.

Il decreto d’abbandono e la riapertura delle indagini

La notizia è stata pubblicata dal quindicinale ‘Area’ e per una conferma abbiamo sentito l’avvocato Costantino Castelli che, pur non essendo direttamente coinvolto in questa specifica controversia, è informato sui fatti essendo il rappresentante dell’Associazione Alba, che aveva presentato ricorso contro l’esito della prima inchiesta condotta sempre da Pagani, che con un decreto d’abbandono aveva fatto cadere le accuse nei confronti del vicecomandante della Polizia cantonale Lorenzo Hutter e della capodicastero Sicurezza di Lugano Karin Valenzano Rossi. Questi ultimi, ricordiamo, erano stati dapprima sentiti come persone informate sui fatti da parte del pg, per poi venir ufficialmente indagati per le ipotesi di reato di abuso di autorità, violazioni delle regole dell’arte edilizia e infrazione alla legge sulla protezione dell’ambiente.

La prima inchiesta era stata lacunosa

Pagani, pur criticando gli agenti a causa di un malinteso interno alla polizia che avrebbe portato alla demolizione, firmò il decreto d’abbandono perché la decisione di abbattere sarebbe stata presa per ragioni di sicurezza, ossia perché il tetto sarebbe stato pericolante. Tuttavia, con la propria decisione dello scorso giugno argomentata in quasi cento pagine, la Corte dei reclami penali (Crp) ha poi rispedito al Ministero pubblico l’incarto sostenendo che la prima inchiesta fosse lacunosa e chiedendo dei supplementi. Il decreto di Pagani era stato definito prematuro, in quanto restavano da chiarire diversi aspetti. E così il pg ha riaperto le indagini e già la scorsa estate si è rivolto a Polizia cantonale e Municipio chiedendo dei documenti aggiuntivi non consultati durante la prima inchiesta. Fra questi, ad esempio, i verbali dello Stato maggiore che prese le varie decisioni e pianificò nei mesi antecedenti alla demolizione lo sgombero, avvenuto la sera stessa poche ore prima che entrassero in scena le ruspe.

Si va per le lunghe

«Le cose stanno andando per le lunghe anche perché sia la Polizia cantonale sia il Municipio di Lugano hanno chiesto alcune proroghe prima di produrre i documenti chiesti da Pagani» osserva Castelli. Documenti che alla fine sono arrivati e, quantomeno per quelli forniti dalla Città, in chiaro. Diverso il caso invece della Polcantonale, che ha allestito la propria documentazione oscurando diverse parti, avvalendosi dell’articolo 248 del Codice di diritto processuale che permette di segretare determinate informazioni in virtù della facoltà di non rispondere o non deporre. Una scelta contestata da Pagani, che li ha chiesti in chiaro, e al suo sollecito ha ricevuto il materiale senza più parti oscurate ma in busta sigillata. Da lì, l’incarto è passato al Gpc.

‘È molto strano’

«È un fatto molto strano – valuta ancora Castelli –. È la prima volta che mi capita di assistere a una cosa del genere. Generalmente, lo statuto dei sigilli è utilizzato in tutt’altro contesto. Ad esempio, se a un avvocato – o un giornalista o un medico o altri mestieri – le autorità inquirenti sequestrano del materiale, questi può richiedere che sia sigillato a tutela del segreto professionale. Non dovrebbe essere la Polizia cantonale, che è ente pubblico, a invocarlo».

La palla ad Ares Bernasconi

E ora? Da nostre informazioni, il giudice dei provvedimenti coercitivi Ares Bernasconi ha impartito a chi invoca la tutela del segreto, nella fattispecie il comandante della Polizia cantonale Matteo Cocchi, e al possibile detentore del segreto, nella fattispecie, il Cantone, rappresentato dal Consiglio di Stato, un termine per esprimersi. Termine che scade intorno a Natale. Ovvero, per dettagliare i segreti di cui il vertice della Polcantonale chiede la tutela e per pronunciarsi sulla questione della competenza. Riguardo a quest’ultimo punto, infatti, non è ancora chiaro se la competenza a decidere sia dell’Ufficio del Gpc oppure dell'autorità chiamata a dirimere i conflitti in materia di assistenza giudiziaria nazionale, secondo il primo capoverso dell’articolo 48 del Codice di procedura penale, e cioè la Crp.

La Polcantonale non rilascia dichiarazioni

Insomma, la procedura è quindi tutt'altro che conclusa. Si può dire che siamo agli inizi. Una procedura che potrebbe durare anche mesi, in cui entrano in gioco aspetti importanti, come appunto i presunti segreti di Stato e la trasparenza. Da noi sentita, da parte sua, la Polizia cantonale ha dichiarato che “visto il procedimento ancora in corso non saranno rilasciate informazioni”.

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