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L’Italia e un’Insalatiera che non ha nulla di casuale

La Davis non è quella di un tempo, ma anche il mondo non è lo stesso. Storia di un trionfo dal grande valore, e chi lo sminuisce rimpiange il passato

Nonostante tutto, per il nuovo tennis italiano sembra solo l’inizio
(Keystone)
28 novembre 2023
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Nel 1976 il mondo era un posto diverso. Un mondo di conflitti culturali, grandi ideologie e narrazioni collettive. Quando l’Italia deve giocare la Coppa Davis, si anima un gran dibattito sull’opportunità di andare a giocare in Cile, dove Pinochet ha da poco preso il potere con un colpo di Stato. Si gioca indossando pantaloncini ridicolmente corti, maglie attillate; si brandiscono racchette di legno scheletriche, tirchie di corde, si portano capelli invariabilmente lunghi. Adriano Panatta, Paolo Bertolucci, Tonino Zugarelli, Corrado Baruzzutti li discostano dagli occhi, provando a vederci meglio. Il modo vanitoso con cui Panatta lo fa è iconico. È lo sportivo più idolatrato del Paese, ma l’aura del suo glamour arriva anche fuori dall’Italia. A capitanarli Nicola Pietrangeli, madre russa e padre italiano, occhi di ghiaccio, l’eleganza dei salotti principeschi di Roma.

Costringe i suoi giocatori a indossare il completo, in ogni occasione. È ‘La squadra’, come è icasticamente definita in un recente documentario uscito su Sky Italia. La squadra giocherà 4 finali di Davis, vincendone solo una, in Cile per l’appunto, indossando le leggendarie maglie rosse per solidarietà a Salvador Allende. Il ricordo e la storia di quella squadra continua a infestare la memoria collettiva degli appassionati di tennis. Ciascuno dei suoi membri ha avuto ruoli di rilievo nella Federazione, e nei media. Ciascuno di loro, a turno, viene chiamato per rievocare quell’epoca d’oro perduta del tennis italiano, che dopo Panatta non ha più saputo produrre un tennista di alto livello per almeno trent’anni. Come se tutto il movimento, ancora appesantito da quell’eredità, dal turbamento delle immagini della squadra, non riuscisse a reimmaginare sé stesso nel presente. Forse non c’è sport, in Italia, in cui l’ascesi e il declino corrisponde così fedelmente a quella del Paese stesso, della sua economia, della sua cultura.

La squadra del ’76 rimanda a un periodo duro per l’Italia, degli anni di piombo, di una grande divisione sociale; ma è ancora un periodo di benessere e potere. Sono i figli di quegli anni che cominceranno a pagare il conto della fine del boom economico, dell’inflazione, di tangentopoli, del berlusconismo. Come assorbendo il declino del Paese, il tennis ha smesso di produrre grandezza, continuando invece a ripensare a quella squadra come a un’epoca di benessere perduto. La nostalgia di un’Italia più felice, più immaginaria che reale ovviamente, visto che ci si sparava letteralmente per strada. Ancora in queste settimane, Panatta è stato onnipresente nei salotti televisivi mentre Pietrangeli continuava a sostenere di aver toccato una grandezza irraggiungibile per gli attuali tennisti suoi connazionali.

Quel qualcosa che turba il Djoker

Quarantasette anni dopo, l’Italia ha un’altra Coppa Davis da festeggiare, una nuova squadra da celebrare: Lorenzo Musetti, Jannik Sinner, Lorenzo Sonego, Simone Bolelli, Matteo Arnaldi sono riusciti a riportare l’Insalatiera in Italia.
Ce l’hanno fatta nonostante, sabato pomeriggio, fossero andati veramente vicini a non farcela. Lorenzo Musetti era stato mandato in campo tra molte polemiche, a giocare il primo singolare contro Miomir Kecmanovic. Musetti è un giocatore di talento, ma il suo gioco è pieno di contraddizioni e fragilità. Dopo un primo set eroico, si è via via disgregato di fronte al banale ma solido avversario serbo. Per l’Italia si era messa male, perché per vincere avrebbe dovuto battere per due volte Novak Djokovic, il numero uno al mondo.
Ce l’ha fatta nonostante, a un certo punto, è andata veramente vicina a non farcela. Dopo un grande primo set, Sinner stava lentamente cedendo a un Djokovic inesorabile, inviolabile al servizio, ingiocabile nello scambio da fondo. Sinner è migliorato, sa fare partita alla pari, ma contro una versione di Djokovic tirata a lucido si può opporre resistenza, non vincere. E così si è arrivati al decimo gioco del terzo set a tre matchpoint consecutivi per Novak Djokovic. Ora, è bene tenere in mente una cosa: in carriera, Djokovic ha perso solo 3 partite quando ha avuto matchpoint a favore, mai quando li ha avuti consecutivi. Sinner negli ultimi mesi ha avuto una crescita esponenziale, e ha migliorato quasi tutti gli aspetti del suo gioco: il servizio, le volée, la tenuta mentale. Attinge a tutto questo per riuscire nell’impossibile: annullare i tre matchpoint, distruggere mentalmente Djokovic, vincere la partita. In 11 giorni l’italiano ha affrontato Djokovic 3 volte, e l’ha battuto 2, dopo non aver mai vinto nei precedenti 3 confronti.

La Davis ha un formato strano, e subito dopo quella sfida logorante Sinner e Djokovic devono subito tornare in campo per giocare il doppio, ad affiancarli Sonego e Kecmanovic. Il numero uno del mondo è ancora visibilmente scosso dalla sconfitta, e l’Italia vince il doppio decisivo senza faticare troppo. C’è qualcosa che turba Djokovic quando gioca per la sua nazione. Forse ci tiene troppo, di sicuro più della media dei giocatori di oggi, ma finora ha messo insieme risultati inquietanti tra Giochi Olimpici e Coppa Davis, che la Serbia non vince dal 2010. In queste due competizioni è sotto 0-7 nei confronti con giocatori top-5. Una statistica particolarmente assurda, per un cannibale di questo sport come Djokovic, che qualcosa vorrà pur dire. Ha perso una partita in modo crudele, nel modo che lui stesso tende infliggere ai suoi avversari; una sconfitta che probabilmente baratterebbe volentieri con la vittoria riportata su Sinner in finale delle Atp Finals di Torino.

Dopo quella vittoria l’Italia partiva favorita contro l’Australia, ma l’esito non era da considerarsi scontato. L’Australia ha il doppio campione di Wimbledon, quello di Ebden e Purcell, e molto si giocava nel primo singolare tra Matteo Arnaldi e Alexei Popyrin. Due giocatori quasi coetanei e con quasi la stessa classifica, che avevano un 1-1 negli scontri diretti prima di questo match. Arnaldi era attorno al numero 400 del mondo fino a un paio d’anni fa, e solo quest’anno ha scalato più di 90 posizioni del ranking Atp. Difficile immaginare una condizione più scomoda: avere tutta la pressione di una
Coppa Davis che manca da quasi mezzo secolo, a 22 anni, con pochissima esperienza sulle spalle ad alti livelli. È stata una partita surreale, tremebonda, che ha espresso la sua tensione nei continui saliscendi tennistici e umorali. Arnaldi ha dovuto fronteggiare 16 palle break, e ha danzato pericolosamente sul cornicione della sconfitta, ma alla fine ce l’ha fatta, grazie alla sottovalutata dote di restare dentro al punteggio pur giocando male, forse peggio dell’avversario. A quel punto la sfida era chiusa. Dagli studi televisivi Rai, Panatta dava il 99% di vittoria a Sinner, che vantava con De Minaur un 5-0 nei precedenti. De Minaur, numero uno d’Australia e numero 12 del mondo, è sembrato un bambino rispetto a Sinner, che ha vinto il secondo set con un trionfante 6-0.

Una salute senza precedenti

L’Italia ha sollevato il trofeo che risarcisce anni di cupezza e scarsi risultati. L’ultima finale di Davis era stata nel 1998 contro la Svezia, ma – pur in un momento di relativa salute del movimento – era più casuale di quanto appaia questa. Per anni l’Italia ha faticato a produrre tennisti di alto livello, ma all’improvviso gode di una salute senza precedenti. Almeno per completezza e profondità, è il movimento tennistico forse più in forma in questo momento. Ci sono 6 italiani in top-100 e altri stanno arrivando, grazie a ottimi risultati nei challenger. Alle fasi finali di questa Davis non ha partecipato Matteo Berrettini, ex finalista di Wimbledon che sta attraversando un periodo negativo, ma che a solo 27 anni ha ancora la possibilità di tornare a ottimi livelli. Questa Coppa Davis, allora, appare come la certificazione di una grande crescita del movimento, frutto di una serie di scelte felici della Federazione. Il progetto Over 18, di cui hanno beneficiato Sonego e Berrettini, il canale monotematico Supertennis, l’aumento dei campi veloci, il decentramento dei centri federali nelle età più basse, che rende meno traumatico il distacco da casa; una quantità senza precedenti di tornei organizzati, quasi a ogni livello ma soprattutto challenger, dove i tennisti italiani trovano terreno fertile per accumulare le prime esperienze e i primi punti. Binaghi, presidente della Federazione, nel frattempo continua a rilasciare dichiarazioni sul fatto che il torneo di Roma, dopo essere diventato un Super1000 vorrebbe trasformarsi in uno Slam. Insomma, siamo nel momento di massima espansione del tennis italiano e questa Coppa Davis non sembra avere nulla di casuale. L’Italia ha un potenziale campione Slam come Sinner, un grande specialista come Berrettini, due giovani interessanti come Musetti e Arnaldi, altri ottimi giocatori e giovani che si stanno facendo strada.

È cambiato tutto, figuriamoci il tennis

Negli ultimi giorni in Italia si è discusso molto sul valore di questa Coppa Davis. In tanti, tra cui il vecchio capitano Nicola Pietrangeli, si sono affrettati a dire che non ha niente a che vedere con la Coppa che giocavano loro, mezzo secolo fa. E questo è oggettivamente vero: è cambiato il mondo, figuriamoci il tennis. Il calendario è sempre più fitto, lo sport ha abbracciato sempre più la sua natura individuale, mentre prima ruotava attorno a questa epica competizioni a squadre. Erano tempi di grandi ideologie e narrazioni collettive. Dal 2019 il formato della Davis si è accorciato, per venire incontro all’intensità del calendario. Si gioca due su tre, e i match sono massimo 3, non 5. Non si fanno più tante trasferte intercontinentali, e il doppio ha assunto uno strano peso, sproporzionato alla debole importanza che gli viene data nel tennis attuale. Eppure la Coppa Davis dell’Italia, per come è arrivata, ha un grande valore sportivo, che sancisce i passi in avanti di tutto il movimento. Chi la sminuisce prova a far tornare i fantasmi del passato, di una generazione che non vuole lasciare il passo a quella nuova, in un Paese che fa pochi figli e sembra ossessionato dal proprio passato.

Nonostante tutto, per il nuovo tennis italiano sembra solo l’inizio.