Otium

A proposito di letteratura e di un ‘magistrato sotto scorta’

L’incontro con Gilberto Lonardi, fresco vincitore del Premio Giorgio Orelli e del ‘Marino Moretti’, e la recensione dell’ultimo libro di Dick Marty

Gilberto Lonardi (sx) e Dick Marty

Pubblichiamo contenuti da ‘Otium’, pagina culturale a scadenza mensile

1.

Intervista a Gilberto Lonardi

a cura di Aurelio Sargenti

Gilberto Lonardi nello scorso mese di ottobre ha ricevuto due premi importanti: il ‘Premio Giorgio Orelli’, istituito dalla Città di Bellinzona nel 2018, per l’originalità dei suoi studi sulla poesia italiana tra Otto e Novecento, e il prestigioso ‘Premio biennale Marino Moretti per la filologia, la storia e la critica nell’ambito della letteratura italiana’, giunto alla XVI edizione, per la sua carriera.

Brevi note biografiche

Gilberto Lonardi ha insegnato a Verona, come professore ordinario, Storia della letteratura italiana, Critica dantesca, Storia della tradizione classica. Ha tenuto corsi a Parigi e a Tours. Ha scritto, fra l’altro, su Manzoni, D’Annunzio, Michelstaedter, Sereni, Giorgio Orelli e sul Dante dei moderni: Effetto Dante. La “Commedia” dei moderni, Napoli, Istituto italiano per gli studi filosofici Press, 2022. Inoltre su Montale: Il vecchio e il Giovane, Zanichelli, 1980; Il fiore dell’addio, Il Mulino, 2003 (Premio Angelini - Università di Pavia); Winston Churchill e il bulldog, Marsilio, 2011. Quanto a Leopardi: Classicismo e utopia nella lirica leopardiana, Olschki, 1986; Leopardismo, Sansoni, 1990; L’oro di Omero. L’‘Iliade’, Saffo: antichissimi di Leopardi, Marsilio, 2005 (Premio Moretti, Premio La ginestra); L’Achille dei “Canti”. Leopardi, “L’Infinito”, il poema del ritorno a casa, Le Lettere, 2017; Il mappamondo di Giacomo. Leopardi, l’antico, un filosofo indiano, il sublime de qualunque, Marsilio, 2019. Per Giampiero Casagrande editore ha pubblicato nel 2020 Un naufragio e altre favole. Leopardi Montale Giorgio Orelli: sei lezioni tenute agli studenti del Liceo Lugano 2.

La letteratura è stata per te nutrimento e passione quotidiani, sia come professore sia come saggista e critico letterario tra i più colti e sopraffini in servizio. Ma è sempre stato così, fin dai tuoi primi studi? (Ricordo che una volta mi dissi che, come Montale, avresti voluto studiare musica).

Sì, ricordo che mi sognavo pianista. Un grande Amico, Pier Vincenzo Mengaldo, si vagheggiava invece direttore d’orchestra. Due sogni quanto mai diversi! Ma le strettezze economiche del dopoguerra mi persuasero – saggezza involontaria! non sarei mai stato un Arrau, ah il suo Chopin... – a non chiedere a mio padre di pagarmi le lezioni. Però un pianoforte entrò in casa, che gioia... Resta che ero coinvolto da tanto altro. La lettura, dirai. Anche, ma non a forti dosi. Soprattutto era bello correre, giocare a s-cianco [‘alla lippa’ in veronese], stare con amici e amiche. Con qualche tinta di accorta pigrizia.

Quali sono stati i tuoi maestri e i compagni di viaggio a te più vicini sia sul piano umano che degli studi?

Non un Maestro, diciamo, iniziale. Semmai, direi, una Maestra, mia madre. Mi dico un orfano perpetuo. Così quanto al piano umano. Quanto agli studi, un bel mazzo: Branca, certo, a Padova, un padre forte e così nuovo quando ci parlava di Boccaccio. Folena, formidabile campione di generosità didattica. Volle leggersi e annotare la mia tesi di laurea manzoniana, prima che la pubblicassi. E poi? Ben presto Contini. E Debenedetti, in certo senso il suo opposto. E Timpanaro. Umanamente impareggiabile pure quest’ultimo.

Un amico, il prof. Giovanni Bardazzi, saputo del meritatissimo Premio Giorgio Orelli a te assegnato, mi scrisse: ‘Per me Lonardi è stato sempre un gran punto di riferimento, fin da quando, ventenne, lessi L’Esperienza stilistica del Manzoni tragico [Firenze, Olschki, 1965]; ne restai impressionato’. Altro fondamentale libro tuo è Classicismo e utopia (Olschki, 1969), dedicato a Leopardi. A questi due autori aggiungo Montale: qual è l’amor che ti mosse, che ti ha fatto e ti fa parlare di loro?

Il Bardazzi, che bei ricordi ‘svizzeri’ ho di lui e della sua ospitalità! Quanto a quel libro d‘esordio, sul Manzoni tragico, c’era di mezzo soprattutto l’interesse – distanziante – per le varianti d’autore. Che bello vedere concordemente interessati a quel me pulcino due proff. che pur d’accordo, sul resto, andavano sempre meno: Branca e Folena. Mi scoprivo di spirito conciliatore (peace!) dotato. Tutt’altra aria con Classicismo e utopia: lì mi lasciavo, trentenne, avvincere ab imo, e lo smilzo libro, scritto in una sola estate, fu una sorpresa per l’a-leopardiano ma avvedutissimo, attentissimo pater, dico Branca. Respingente il titolo? Comunque la mia giovanile passione non era per Alessandro M., ma per Giacomo (e semmai pure, ma un po’ più tardi, per Brera). E Montale! Saggiato anzitutto sul suo lato inglese (Browning) per un seminario foleniano, ma scoperto da solo a dodici anni, nell’antologia scolastica di Consonni (siano lodate le belle antologie). Da un lato Leopardismo 1974, dall’altro, 1980, il primo libro su Eusebio [così gli amici chiamavano Eugenio Montale]. I giochi erano fatti, nell’80 già ero da quattro anni prof. di ruolo nell’università dopo che da un decennio circa ero ordinario, giovane-giovane, nei Licei. Libertà andavo cercando e fui di interessarmi a quanto mi piaceva. Senza soggezione a consorterie varie; un cane sciolto. Ma tanto mi piaceva pure l’insegnamento: fosse nella scuola, prima, o fosse, dopo, nutrendolo a giro stretto delle mie ricerche ’sul campo’, nell’università.

Poi c’è un Lonardi poeta, che esordisce con una ‘plaquette’ edita fuori commercio nel settembre 2021: La musa prigioniera. Versi 2020-2021. Vuoi parlarcene?

Poesiette, le chiamo. Forse con qualche poesia-poesia non spregevole. Responsabile il Covid imprigionante e, congiunta maleficamente, la prigionia da femore rotto. Ma i miei versi li pensavo come un solacium per me, solo per me, e per pochi amici. Poi uno di loro, un lombardo, il mio quasi coetaneo Gianni Cancellieri, volle farsene privato editore. Un altro amico, Adalberto Scemma, le ha recentemente volute in libro, diciamo, pubblico. Con aggiunte. Alcuni versi sono dedicati allo sport, a calcio e atletica soprattutto. Anzitutto da qui, ma non da qui solo né solo complice l’amicizia, l’interesse di Adalberto – giornalista sportivo, oltre che editore – per le mie imprese poetiche.

Terminiamo in leggerezza: nel 1978 hai cominciato a tenere una rubrica culturale sul quotidiano scaligero ‘L’Arena’ occupandoti, tra il 1984 e il 1990, anche di calcio. Militante e tifoso. Il compianto tuo amico Luigi Blasucci, altro grande leopardista, era un ‘gobbo’, cioè un grande tifoso della Juventus: tu?

Mi nomini un amico e Donno dolorosamente perduto, Gino Blasucci. Incomparabile leopardista – il colloquio con lui non si è interrotto – e, purtroppo, cieco juventino. E io? Tifo quasi contro me stesso e contro la modestissima evidenza per il Verona. Bestemmio sottovoce contro chi lo dissangua regolarmente a ogni stagione. A vibrante compenso, il Napoli. Dalla magica conduzione-Sarri in poi. Pure qui interferisce l’amicizia. Ho cari amici tifosissimi napoletani, il Peppino Ascione [antiquario del corallo], Matteo Palumbo [professore onorario di Letteratura italiana a Napoli], Fabiana Cacciapuoti [già curatrice del Fondo leopardiano della Biblioteca Nazionale di Napoli]... Ma forse il mio cuore batte anche più, ostinato, incorreggibile, per la Nazionale italiana di calcio. Quante delusioni. Un residuo nazionalista, anche se mi ritengo un cittadino, se non del mondo che non abbastanza conosco, d’Europa? È così, ma che farci?

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Le verità irriverenti di Dick MartY

di Roberto Antonini, giornalista

Magistrato e politico, o forse magistrato prestato alla politica come ebbe a definirlo qualcuno. Ma è nella grande letteratura che possiamo in fondo identificare le vere peculiarità, snidare l’animo più profondo di una personalità che non cessa di interrogarsi sul senso del nostro agire, come individui e come società.

In filigrana di Verità irriverenti. Riflessioni di un magistrato sotto scorta (Edizioni Casagrande 2023) troviamo come nel precedente Una certa idea di giustizia (Edizioni Casagrande 2018) un personaggio della tragedia greca, Antigone. È a lei, alla figlia di Edipo, e alla sfida che lancia in nome di una giustizia superiore a quella con la quale il potere del re Creonte ammanta i propri soprusi, che corre costantemente il pensiero di Marty. La battaglia per una giustizia vera, non strumentale alle diverse ideologie, che affondi le radici nei grandi principi etici. Quei valori universali che Immanuel Kant chiamava “la legge morale dentro di me”.

Dick Marty, al quale il pubblico, accorso numeroso come non mai alla serata indetta il 14 novembre al Lac, ha tributato un’impressionante caloroso abbraccio collettivo, non abbassa le braccia neanche nel momento più difficile della sua vita. Al contrario, non esita, il libro lo scrive nell’urgenza, di getto perché glielo impone una malattia contro cui la battaglia è estremamente ardua da vincere. Una forza esemplare, un atto di coraggio che commuove e soprattutto invita il lettore alla ribellione morale. Un ‘j’accuse’ che non fa sconti e che in sottotraccia ci ricorda quel piccolo pamphlet (Indignez-vous) con il quale qualche anno fa l’ultranovantenne franco-tedesco Stéphane Hessel ribadiva la necessità di alimentare costantemente lo spirito di resistenza contro le ingiustizie.

Le Verità irriverenti offrono una riflessione su alcuni momenti del suo percorso, sulle istituzioni (compresa l’inspiegabile gestione da parte di Berna della recente e traumatica messa sotto protezione di Marty vittima predestinata di complotto con il quale ambienti dei servizi segreti serbi avrebbero voluto eliminarlo), sulla crisi epocale della democrazia (ci aveva forse visto bene Platone quando metteva in guardia dai rischi che la democrazia potesse sfociare nella tirannia) e su quella della giustizia internazionale (la Corte Penale Internazionale) prigioniera degli interessi delle grandi potenze.

Il mondo non sembra essere molto progredito rispetto al 1957, quando nel discorso di accettazione del Nobel della letteratura, Albert Camus affermò che la sua generazione non si faceva più illusioni sulle possibilità di rifare il mondo, e che il suo compito ormai consisteva nell’impedire che si distruggesse. Da sempre Dick Marty trova nell’autore di L’étranger un mentore o forse sarebbe meglio dire un compagno, nel suo viaggio umano e intellettuale: una breve frase estratta da un testo intenso quanto poco noto (L’été) posta in epigrafe di un capitolo ci dice molto su Dick Marty e sulla forza che ha trovato per scrivere questo suo libro: “Nel bel mezzo dell’inverno, ho infine imparato che vi era in me un’indicibile estate”.