Nulla di religioso. Anzi la vittoria di Tusk e degli europeisti è indigesta alla Chiesa. E ora Varsavia torna a guardare a Bruxelles
Nel Paese considerato “il più cattolico del mondo” avviene un miracolo. Per nulla religioso, anzi indigesto alla Chiesa locale. È laico, è politico. A Varsavia, contro tutte le previsioni dei sondaggi: la vittoria dello schieramento europeista, guidato da Donald Tusk, leader di “Piattaforma Civica”. Un successo antipopulista.
Autentica impresa, quella di sbarrare la strada al “Pis” (Diritto e Giustizia), che soltanto quattro anni fa aveva ottenuto uno strepitoso 43% di consensi, servendosene per diventare regime e annichilendo lo Stato di diritto. Regime paranoico, in forsennata opera di demolizione che ha fatto della Polonia, ha scritto il politologo Ivan Krastev, “il fulcro dell’antiliberalismo centro-europeo”. “Democrazie illiberali” fu espressione coniata da Fareed Zakaria già un quarto di secolo fa: maggioranze elette liberamente ma che, consultazione dopo consultazione, usando narrazioni di facile presa, costruiscono architetture che “violano i limiti costituzionali del loro potere”. Con un piede già nell’autoritarismo. Laboratorio a cui sembrava destinata l’Europa intera.
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Lo sconfitto, Jaroslaw Kaczynski
Aver spezzato simile tagliola anti-istituzionale e anti-democratica non è dunque impresa da poco. Anche se ancora deve essere istituzionalizzata, per procedere a una coalizione di governo. Qualche residua apprensione resiste. Sia perché la composita compagine dei vincitori ha anche una sua intima fragilità interna; sia, come diceva Lech Walesa a urne già aperte, quello in carica è un esecutivo “di manipolatori e presunte persone di fede” (detto dall’operaio che nei cantieri di Danzica firmò, con alle spalle un ritratto della Madonna, il documento che apriva enormi falle nel muro comunista). Sospettoso, l’ex sindacalista, anche verso il capo dello Stato, Andrzej Duda, fedelissimo del premier Morawiecki. A lui il presidente affiderà, come esponente del partito comunque più votato, il primo incarico di formare il governo, anche se non ha i numeri per riuscirci, tradito anche da “Konfederaja”, accozzaglia di estremisti della peggior specie.
L’elettorato giovane, in cerca di maggiore libertà in un presente soffocante, e soprattutto le donne sono i principali sanzionatori del partito dell’intolleranza. Donne – più volte scese numerose in piazza – che hanno bocciato nell’urna la rigidissima legge anti-aborto. Norma naturalmente gradita da una Chiesa iper-conservatrice, non solo nella dottrina, ma anche nel rifiuto della laicità, che influenza e suggella le decisioni più oscurantiste e retrograde del potere. Perciò complice, il clero, non solo nella limitazione dei diritti delle minoranze sessuali, ma obiettivamente anche dei forti limiti alla magistratura e a una stampa indipendente, nonché nel rifiuto dei profughi che arrivano dal Sud Mediterraneo (non quelli biondi e cristiani dell’Ucraina).
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La festa post-voto
Il vincitore Donald Tusk – già presidente del Consiglio Ue – guida una formula “arcobaleno”. Con vistose insidie alla sua tenuta. Uno dei partner è per esempio fortemente anti-abortista. Il suo successo spezza comunque l’anello forte della “catena di Visegrad”, ex satelliti dell’Urss (Ungheria, Slovacchia, Bulgaria) che dopo aver ricevuto da Bruxelles fior di miliardi per il rilancio economico, contestano ogni tentativo di una maggiore integrazione. Tusk ha promesso dialogo e ritorno delle libertà fondamentali. E prospettive si spera meno “nere” per la prossima cruciale elezione dell’Europarlamento.