La sensibilità si ferma davanti a giudizi e pregiudizi, anche così si finisce per contare solo una parte delle vittime di una guerra
Si dice che il prezzo lo fa il mercato: ed è vero. Vale per le sfuggenti monete virtuali ai tempi del trading online, valeva per il succo d’arancia congelato ai tempi della Borsa a urlacci di ‘Una poltrona per due’ e vale anche per la morte tra le bancarelle. Contano il tempismo e conta chi – bilancia alla mano – si mette a pesare le vittime come fossero arance. E ci sarebbe da indignarsi, non fosse che lo facciamo un po’ tutti.
Il mercato può addirittura essere lo stesso. Facciamo un nome: Markale, Sarajevo. I 68 morti ammazzati dalle bombe serbe del 5 febbraio 1994 sconvolsero la popolazione locale, ma non la comunità internazionale che faticava a capire cosa succedeva in Bosnia e chi ammazzava chi dentro una nebbia di guerra fatta di bugie, impreparazione, pregiudizi. Il 28 agosto 1995 stesso mercato, stessa provenienza delle bombe, stessa povera gente a morire: le vittime furono 43, venticinque in meno della strage di un anno e mezzo prima. Ma al cambio mediatico valevano ormai molto di più: quel massacro portò Onu e Nato a muoversi e il mondo a indignarsi come forse non aveva mai fatto durante la Guerra nei Balcani. Fu un punto di svolta. Cos’era cambiato? Niente. Ma era cambiato tutto nel momento in cui chi pesava quei morti decise di cambiarne il valore.
I 15 morti del settembre scorso al mercato di Kostiantynivka, in Ucraina, non se li ricorda già più nessuno perché ci siamo assuefatti a quel conflitto e perché nulla è cambiato dopo quel massacro. Era al massimo una fotografia buona per impressionare o un video di fiamme da passare in tv tra una dichiarazione di Zelensky, una minaccia di Putin e un pigro aggiornamento della mappa di dove era andata a bussare la morte quel giorno.
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Il mercato in fiamme di Kostiantynivka, in Ucraina
Ieri molte testate del mondo occidentale hanno messo in evidenza, nei loro titoli, i 700 morti israeliani dell’attacco congiunto delle forze di Hamas. Le oltre 400 vittime palestinesi della rappresaglia di Tel Aviv semplicemente non c’erano, o – quando alla fine c’erano, se proprio le andavi a cercare – comparivano come un dettaglio tra mille altri dettagli nel testo. A parte certi fogliacci, che lo fanno apposta, gli altri nemmeno ci pensano: si contano “i nostri” e non si contano “i loro”, facendo torto non solo alla matematica, ma al buonsenso oltre che a quel poco di amor proprio (e per l’altro, chiunque sia) che ci resta.
Non è nemmeno una questione d’imparzialità (l’essere parziali, pieni di informazioni e abitudini sedimentate negli anni, è talmente insito in noi da essere di fatto quasi inestirpabile), è una questione di rispetto verso tragedie che spesso sono opera di uomini, ma poi sfuggono di mano diventando troppo grandi da elaborare per l’uomo stesso.
Ci sono oltre mille vittime in Medio Oriente, e mettersi a fare distinguo – per carità – si può, ma fingere che alcune non esistano o ancor peggio non accorgersene è inumano. D’altronde siamo in un’epoca di bandierine, sui profili social e – in molti Paesi – anche sui palazzi istituzionali: quella ucraina, quella israeliana, quella russa, quella palestinese e chissà quante altre, tutte mischiate in ordine sparso, a seconda di chi sbandiera.
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Il funerale di un soldato israeliano
Ciascuno trova la sua combinazione di vessilli da alzare, una Verità univoca e inattaccabile da sponsorizzare, come se tutto fosse decifrabile nella stessa maniera, come se il mondo si potesse dividere sempre in buoni e cattivi tirando una linea così netta da far cadere una parte di morti nell’oblio. Non è così, non sempre almeno, sennò non avremmo i pro-Ucraina oggi divisi tra filoisraeliani e filopalestinesi. I buoni degli uni sono i cattivi degli altri, anche se altrove il buono è lo stesso. Già basterebbe questo per ricordarsi che non si può, non si potrebbe tagliare tutto con l’accetta. E invece lo fanno quasi tutti. C’è chi esulta sui social davanti alla morte di 260 ragazzi che erano andati a un rave perché Israele “è una forza occupante, repressiva e brutale” e chi davanti alle bombe su Gaza perché “se lo meritano quei musulmani brutti, sporchi e cattivi”.
E così separare morti e sofferenze umane da analisi geopolitiche da diplomatici o da Wikipedia e dalle colpe dei capipopolo che usano la loro gente come scudi umani (e vale per entrambi) diventa un esercizio ormai troppo difficile. Viene da pensare – e da farlo con sconforto – che di Nagorno Karabakh o di Yemen non si parli non tanto perché non sia importante, ma è perché la gente in primis che non se ne interessa. Quel che è peggio è che non se ne interessa perché non sa per chi tifare: banalmente “non conosce le squadre”. Se gioca l’Ambrì o la Juventus accendo la tv, se sparano gli israeliani o i palestinesi anche. Tiro pure fuori le bandiere. Se è hockey in cirillico o una lontana guerra di Serie B, spengo. E dei morti altrui chissenefrega, sono mica miei.
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Un funerale nella Striscia di Gaza