Con la partenza di Lorenzo Erroi laRegione perde un’altra colonna, dopo quella caduta assieme a Erminio Ferrari. Guardiamo indietro per andare avanti
A breve siederò alla scrivania occupata fino a quasi tre anni fa da un giornalista che senza mai voler dare lezioni a nessuno ha funto da bussola per molti colleghi. Ho conosciuto Erminio Ferrari quando poco dopo gli studi sono approdata a quella che era la ‘sala correttori’ de ‘laRegione’. Grandi sedie foderate di rosso – in tono con l’inchiostro che finiva copioso su alcune pagine –, finestre che col buio riflettevano l’immagine di un tavolo ovale attorniato da figure chine su fogli, era una stanzetta-acquario dalle pareti di vetro in cui passavamo al vaglio l’edizione del quotidiano del giorno successivo per scovare errori e refusi. In un’atmosfera che aveva un po’ della fabbrica – si lavorava a turni, fino a mezzanotte, sempre in maggioranza donne –, un po’ dell’ufficio reclami – “chi ha messo nel mio articolo la parola ‘dio’ in maiuscolo?” (un libero pensatore); “chi ha accentato il pronome personale in ‘sé stessi’ nella mia analisi”? (un rigoroso della Crusca) –, tra il continuo viavai c’era anche chi passava per ringraziare di uno strafalcione scongiurato e chi – Erminio – sostava quotidianamente per scambiare alcune parole.
Non amava gli dicessimo che era uno di cui ci contendevamo le pagine. Era piuttosto restio a commentare le notizie di cui trattava o a dare novità sui libri a cui stava lavorando. Preferiva parlare delle sue mucche che accudiva ogni mattino all’alba, chiederci dei nostri interessi e soffermarsi sui terreni che scopriva comuni. In quelle preziose sospensioni notturne che hanno cadenzato i miei numerosi anni nella ‘sala correttori’, erano frequenti i nostri frammenti di conversazione con incursioni in campi letterari e cinematografici. Tra gli autori per cui condividevamo una fascinazione c’erano Jean-Claude Izzo e Krzysztof Kieślowski, entrambi col talento di sapersi mettere al fianco delle esistenze condotte ai margini e isolate, e di restituirne vividamente le passioni, i dolori, le conseguenze di destini sfortunati. Lo scrittore francese, padre del “noir mediterraneo”, raccontando la violenza e lo splendore di quel mare e dei suoi attraversatori confluiti nelle contraddizioni della dolente e meravigliosa Marsiglia protagonista della sua celebre trilogia. Il regista polacco, col suo cinema a tratti metafisico, tentando di osservare il più da vicino possibile gli effetti delle relazioni interpersonali e interrogandosi su temi quali responsabilità, colpa e caso.
Anche Erminio possedeva l’arte di mantenere in filigrana l’attenzione per l’animo umano, in particolare delle vittime, nell’analizzare i fatti del mondo e nello smascherare le sterilità morali di numerosi potenti (e talvolta di riflesso anche le nostre). E come i due autori, possedeva un’indole venata di pessimismo, senza però mai cedere all’arrendevolezza. “L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme – scriveva Italo Calvino in ‘Le città invisibili’ –. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”. Erminio era partigiano del secondo modo di stare al mondo.
Negli ultimi tre anni, alla scrivania che a breve occuperò sedeva un giornalista capace della stessa postura, Lorenzo Erroi: “Questo mestiere me l’ha insegnato anzitutto lui, quasi senza volerlo e soprattutto con l’esempio”, scriveva di Erminio in occasione dell’incidente in montagna che lo ha strappato alla vita. Un anno dopo, il 14 ottobre 2021, la prima pagina de ‘laRegione’ presentava uno spazio bianco al posto dell'articolo di fondo col titolo: ‘Abbiamo perso una colonna’. Ora che Lorenzo cambia posto di lavoro ne stiamo per perdere un’altra. Anche se ne rimangono tante ben salde e di inestimabile valore a reggere la testata – spaziando da chi ne ha fatto la storia, come Andrea Manna, a chi vi ha portato nuova linfa nel tempo, come Jacopo Scarinci e Giacomo Agosta (per citare solo i miei colleghi di redazione, ma l’elenco è lungo) – viene meno un’ulteriore sensibilità dotata di lenti bifocali abile a prestare attenzione tanto alle traiettorie umane più dimesse quanto a inquadrare i grandi contesti in cui si sviluppano, avvalendosi di una peculiare floridezza di lessico mista a un’incisiva ironia in grado di aprire inediti squarci interpretativi, senza risparmiare stilettate in punta di penna nelle immediate prossimità.
Da Lorenzo, oltre alla scrivania, erediterò anche il testimone alla co-vicedirezione del giornale. O meglio, un’altra bussola che nel modo di interpretare il mestiere indica la stessa direzione di quella di Erminio. È verso quella direzione che vorrei dirigermi, continuando a cercare una mia strada, senza saltare maldestramente tra le loro orme. Perché quelle che entrambi hanno lasciato al giornalismo ticinese rimarranno uniche e ineguagliabili.