Il consigliere nazionale socialista Roger Nordmann pubblica un libro che è una sorta di manifesto a favore della creazione di un Fondo per il clima
Roger Nordmann lascia proprio in questi giorni la presidenza del gruppo parlamentare del Ps, una carica che ricopre da otto anni. Grazie a una deroga concessagli dal suo partito, il vodese – che ha dovuto cedere al collega Pierre-Yves Maillard il posto di candidato al Consiglio degli Stati, com’era successo quattro anni fa con Ada Marra – si ripresenta a ottobre per un quinto mandato al Consiglio nazionale, dove siede dal novembre 2004. Altri quattro anni. Poi si vedrà.
In quella che sarà con ogni probabilità la sua ultima legislatura a Palazzo federale, il 50enne continuerà a battersi per il tema che più gli sta a cuore: la transizione energetica e climatica. Nordmann ha un piano: una strategia che è una sorta di programma d’attuazione dell’iniziativa popolare per la creazione di un Fondo per il clima, lanciata un anno fa congiuntamente dal Ps e dai Verdi. I presupposti, i contorni e la portata della transizione – che lui immagina rapida, efficiente ed equa – sono illustrati nel libro che ha appena pubblicato: Urgence énergie et climat. Investir pour une transition rapide et juste (Editions Favre, Lausanne, 296 pp.; disponibile anche in italiano in formato pdf; Nordmann stesso lo presenterà mercoledì 6 settembre alle 20 alla Casa del popolo a Bellinzona). «Ho cercato una via di mezzo, realistica, tra i due eccessi della nostra epoca: la disperazione (“non ci riusciremo mai, sarà la catastrofe climatica”) e la negazione (“il cambiamento climatico? Non è così grave”?)», spiega il consigliere nazionale saggista a ‘laRegione’. Intervista.
Questo è il terzo libro che consacra alla transizione energetica. Cosa non aveva ancora detto? O cosa bisognava correggere rispetto ai primi due?
La guerra in Ucraina e l’obiettivo zero emissioni nette entro il 2050 [sancito dalla legge approvata in votazione popolare lo scorso giugno, ndr] hanno reso più complicato il quadro generale. La questione dell’approvvigionamento energetico in inverno è diventata centrale: andava trattata in modo approfondito. Non solo. Mi sono reso conto che esiste una forte sinergia tra l’approvvigionamento energetico invernale e la decarbonizzazione dell’industria. Per questo nella riflessione ho voluto includere l’industria, cosa che avevo fatto solo in maniera marginale nei miei primi due libri. Infine, andava affrontata meglio la ‘questione sociale’; e definita con maggior precisione la portata dell’investimento necessario.
Il libro esce in piena campagna per le Federali. Qualcuno potrebbe pensare che voglia fare ombra ai Verdi…
No, no. Ho cominciato a scriverlo nel gennaio dello scorso anno. L’idea era di pubblicarlo nel settembre 2022, in concomitanza col lancio dell’iniziativa per un Fondo per il clima. Ma poi c’è stata l’invasione russa dell’Ucraina, la crisi energetica, le dimissioni di Simonetta Sommaruga… Non era mia intenzione pubblicarlo adesso. Semplicemente, non sono riuscito a finirlo in tempo.
Il libro dunque è una sorta di manifesto a favore della creazione di un fondo per il clima, giusto?
Esattamente. Nel libro spiego perché in Svizzera non riusciremo a realizzare la svolta energetica e climatica basandoci esclusivamente sul principio di causalità [chi inquina paga, ndr]. Politicamente, è irrealistico infatti pensare che arriveremo a rendere talmente care le energie fossili da dissuadere le persone dall’utilizzarle. A maggior ragione perché in questo modo ridurremmo il potere d’acquisto, impedendo alle persone di investire, ad esempio nel risanamento energetico dell’abitazione. Sono così giunto alla conclusione che, nei settori dove la tecnologia è disponibile, l’unica soluzione è quella di sostenere gli investimenti. Incanalandoli in modo tale che alla fine le rinnovabili e l’efficienza energetica ‘battano’ le fonti fossili.
Dice che occorre “uscire da una prospettiva unicamente individuale”, poiché il problema è “sistemico”. Da qui l’idea di un “cambiamento di sistema”. Ci spieghi.
Come individuo posso fare qualcosa: ridurre il consumo di carne, prendere meno spesso l’aereo, e così via. Però non posso fare granché sul piano dell’approvvigionamento elettrico. Bisogna smetterla di fare la morale alle persone, di colpevolizzarle: non serve a niente! Anzi, questo impedisce di vedere il problema strutturale in tutta la sua chiarezza. Laddove la tecnologia è a disposizione, bisogna intraprendere un’azione collettiva, pubblica, investendo nel cambiamento.
Non divieti, né tasse: al loro posto, sovvenzioni ad annaffiatoio. Siamo sicuri che sia la strada giusta?
Le persone non devono essere punite, ma incoraggiate a investire. Per questo non servono un obbligo o l’aumento della tassa sul CO2. Serve invece un aiuto finanziario, che convinca le persone che vale la pena investire. L’idea, in fondo, è di ricompensare le esternalità positive: se una persona rinnova la propria abitazione sotto il profilo energetico, questo non è positivo solo per lei, bensì per la collettività intera. E da questo punto di vista, una partecipazione della collettività ai costi sopportati dall’individuo si giustifica.
Pilastro del suo approccio è una strategia chiamata ‘Solare, syngas e industria’ (Ssi). Di cosa si tratta?
L’idea è che il settore elettrico e l’industria interagiscano più strettamente di quanto non facciano oggi. Nell’industria, in quella metallurgica in particolare, per un certo numero di processi che richiedono calore ad alta temperatura, viene utilizzata per lo più energia di origine fossile, soprattutto il gas. La mia proposta è questa: usiamo l’elettricità prodotta in eccesso durante l’estate – grazie soprattutto a una massiccia espansione della produzione fotovoltaica – per fabbricare gas di sintesi [o syngas: idrogeno o metano, ndr] rinnovabile da utilizzare direttamente nel settore industriale, al posto dei combustibili fossili, senza riconvertirlo in elettricità. Invece di avere una doppia conversione (dall’elettricità in estate al syngas stoccato, e da questo di nuovo all’elettricità), ne abbiamo una sola (da elettricità a syngas): in questo modo riduciamo le perdite. La strategia Ssi consentirà, a mio avviso, la completa decarbonizzazione di edifici, trasporti terrestri, industria ed elettricità, settori responsabili dei due terzi delle emissioni di gas serra in Svizzera. Solo l’aviazione non è inclusa.
Tra i settori menzionati, qual è quello dove la necessità di agire è più urgente?
Il risanamento energetico degli edifici avanza a un ritmo troppo lento. E la produzione elettrica va aumentata in modo massiccio, per far fronte al ‘buco’ che si creerà quando verranno disattivate le centrali nucleari rimanenti. Non dobbiamo dimenticare che qui si tratta di rinnovare buona parte dell’infrastruttura di produzione elettrica, risalente per lo più agli anni Sessanta e Settanta. Negli ultimi quarant’anni in Svizzera non si è quasi più investito. Siamo ormai in modalità recupero: dobbiamo modernizzare l’industria, e dobbiamo investire anche nei settori dei rifiuti, del cemento, dell’agricoltura. Davanti a noi abbiamo un’immensa trasformazione da realizzare.
La transizione energetica e climatica è fattibile, d’accordo. Ma costa parecchio: 430 miliardi di franchi sull’arco di 25 anni, 17 miliardi all’anno. Sembra un’enormità. E poi: chi paga?
Non farla, questa transizione, ci costerà molto più caro! I 430 miliardi di franchi di investimenti possono sembrare una cifra astronomica. In realtà è ragionevole: rappresenta il 2,2% del Prodotto interno lordo durante 25 anni. E rapportata alla spesa a lungo termine per l’importazione di combustibili fossili, la strategia di investimento costa meno. In uno ‘scenario 2073’ in cui il consumo di combustibili fossili diminuisce soltanto dell’1,1% all’anno in Svizzera, la spesa cumulativa per importarli sarebbe di 657 miliardi di franchi. A costare caro è la nostra attuale dipendenza dal petrolio proveniente dall’estero!
Chi li pagherebbe questi 17 miliardi all’anno?
Propongo un modello di finanziamento pubblico/privato: il 45% (8 miliardi di franchi) viene coperto dal Fondo per il clima; il restante 55% dalle aziende e dalle economie domestiche. Nei fondi stradale (Forta) e ferroviario (Faif) il finanziamento è al 100% pubblico. Il Fondo per il clima, invece, è pensato come un sostegno pubblico agli investimenti privati. La nostra iniziativa propone di non conteggiare il contributo al Fondo all’interno del tetto consentito dal freno alle spese. In questo modo si evita un impatto negativo su altri compiti pubblici. Non sarà necessario effettuare risparmi di bilancio a seguito della creazione del Fondo. Questo sarà interamente finanziato da un ulteriore indebitamento, un’opzione preferibile all’aumento delle imposte.
L’aspetto sociale – ossia l’impatto della transizione energetica e climatica sulle diverse fasce della popolazione – passa spesso in secondo piano. Eppure è centrale. Detto altrimenti: non tutti si possono permettere un’auto elettrica; e non tutti, al netto degli aiuti, hanno soldi a sufficienza da investire nella sostituzione di una caldaia a nafta, o nel risanamento energetico della casa. Lei afferma che si tratta di “distribuire equamente lo sforzo”. Come, concretamente?
Quest’aspetto è assolutamente centrale. Da un lato, il Fondo per il clima incoraggia una distribuzione più equa dello sforzo complessivo. Nei casi in cui le famiglie a basso reddito possono investire direttamente, gli aiuti erogati – modulati a seconda del reddito – saranno di grande aiuto. D’altro canto, dobbiamo assolutamente evitare di tassare il consumo di energia per finanziare l’investimento: sarebbe il tipo di finanziamento più anti-sociale che esista, dato che le famiglie a basso reddito devono comunque dedicare una quota maggiore del loro budget a queste spese rispetto ai più abbienti. Un’idea invece applicabile è quella di concludere accordi con i proprietari di immobili. Del tipo: se non aumenti gli affitti dopo un risanamento energetico, avrai diritto a un sostegno pubblico più consistente.
Il dipartimento federale dell’energia ha un ruolo centrale in questa transizione. Era più facile quando a dirigerlo era la sua amica Simonetta Sommaruga, oppure adesso con l’Udc Albert Rösti?
Rösti – sostenuto da tutti i partiti, tranne il suo – per il momento lavora bene. Non ho alcun rimprovero da fargli.