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Il giornalismo, Assange e gli altri

Ci si indigna facilmente per le sue vicende giudiziarie, ma ci si dimentica in fretta di casi come quello di Milashina, picchiata e cosparsa di vernice

In sintesi:
  • Indignazione a geometria variabile, quella con cui alimentiamo regolarmente la nostra buona coscienza e il nostro conformismo
  • Tante le storie, soprattutto ad Est, che ci ricordano quanto fare il reporter non sia sempre facile
Una manifestazione per Julian Assange
(Keystone)
13 luglio 2023
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No, non troverete il suo nome in nessuna petizione internazionale, non vedrete neppure la sua effigie sulle t-shirt di qualche militante, nessun flash mob per lei, il suo caso non sarà discusso nelle cancellerie, nelle udienze del Papa, nei grandi consessi internazionali. Elena Milashina, giornalista di Novaya Gazeta, ha incassato la solidarietà di qualche collega, ma nulla di più. Quanto le è successo finirà nel dimenticatoio. Nel suo caso neanche l’ombra delle proteste suscitate dal supplizio carcerario che vive da quattro anni Julian Assange.

La giornalista russa è stata pestata in perfetto stile squadrista in Cecenia: 14 fratture, dita spezzate, capelli rasati a zero e capo cosparso di vernice. Milashina, donna coraggio, aveva raccolto il testimone della sua collega Natalia Estemirova, assassinata come la giornalista da cui aveva ereditato un temperamento a prova di tutti i pericoli, compreso quello di vita: Anna Politkovskaïa. Nessuno probabilmente ha mai sentito parlare neanche di Ljudmila Zamara, freddata da sicari, di Veronika Belotserkovskaya, condannata a 9 anni di galera per aver diffuso ‘fake news’ sui bombardamenti a Mariupol, di Alexander Nevzorov, 8 anni di carcere per lo stesso reato. A Ivan Safronov sono stati inflitti 22 anni, a Vladimir Kara-Murza 25.


Keystone
Ivan Safronov durante il processo di condanna per 22 anni

Se Dmitrij Muratov è ancora in vita (e in libertà) lo deve verosimilmente al Nobel che gli è stato conferito. Ma la sua Novaya Gazeta è stata ridotta al silenzio. La quasi totale indifferenza di fronte alla feroce repressione di giornalisti russi e all’elevatissimo numero di reporter morti ammazzati, contrasta con la capillare solidarietà che in Occidente si è manifestata a favore del fondatore di WikiLeaks di cui a giorni dovrebbero essere noti i destini: le speranze di evitare l’estradizione dal Regno Unito negli Stati Uniti, dove deve rispondere a 18 capi d’accusa, tra cui cospirazione e spionaggio, sono ormai ridotte al lumicino.

Assange, brillante hacker, tramite la sua piattaforma collaborativa aveva pubblicato centinaia di migliaia di documenti segreti grazie ai quali siamo venuti a conoscenza di crimini commessi dall’esercito americano in Iraq e Afghanistan. Malgrado non poche ombre (sospetti di connivenza con il Cremlino, messa in pericolo di migliaia di persone, tra cui militanti curdi in Turchia, diffusione di e-mail di Hillary Clinton in piena campagna elettorale – “I love Assange” – esclamò poi il vincitore Donald Trump), la difesa pressoché unanime del 52enne australiano incarcerato a Londra è sacrosanta: risponde al principio dell’interesse superiore (la verità sui crimini di guerra) rispetto alle normative di legge. A suo favore si sono espressi l’Onu, Reporter senza Frontiere, Amnesty International, giornalisti e intellettuali.


Keystone
Elena Milashina in ospedale dopo l’aggressione

Barack Obama aveva graziato Chelsea Manning, l’ex militare transgender condannata per aver fornito ad Assange i documenti secretati. Biden seguirà l’esempio del suo predecessore? Difficile ma non escluso. Sarebbe una vittoria del diritto alla verità. Comunque vada, rimane aperto un grande interrogativo: riguarda la sincerità dell’indignazione, quella che ci fa spolmonare per Assange, ma dimenticare Milashina e gli altri. Indignazione a geometria variabile con cui alimentiamo regolarmente la nostra buona coscienza e il nostro conformismo ideologico.