Le parole non servono a nulla. Qualcosa all’interno di Marcella (nome di fantasia) si è bloccato: trovare la via di uscita non sarà semplice
Apri gli occhi, apri gli occhi, apri gli occhi. Non siamo nella distopia di Amenábar (qualcuno forse l’avrà conosciuta poi come ‘Vanilla Sky’), ma poco ci manca. C’è qualcosa di distorto in quella stanza. Niente da fare, la ragazza gli occhi non intende proprio aprirli. Sono cinque, o forse sei, le settimane passate senza andare a scuola, senza praticamente alzarsi dal letto se non per dei bisogni fondamentali. Il padre guarda la ragazza immobile e indifferente, è preoccupato ma prova anche una certa rabbia. Com’è possibile?, si chiede e chiede a sua figlia, hai tutto quel che serve, una famiglia che ti vuole bene, una casa, tutto. Qui tutti facciamo quel che dobbiamo fare, anche se non sempre ci piace, anche se non sempre ne abbiamo voglia. Alzati Marcella! Ti prego, alzati…
Le parole non servono a nulla. Qualcosa all’interno della ragazza si è bloccato: trovare la via di uscita non sarà per niente semplice. Quel qualcosa ha prima di tutto occupato l’interiorità di Marcella, ora chiusa in sé stessa. Ma poi ha invaso la sua stanza, che le fa da specchio: uno spazio quasi inaccessibile, vestiti buttati ovunque, piatti con resti di cibo, bicchieri sporchi, mozziconi di sigarette (o di canne?) appoggiati alla finestra. A impressionare il padre, oltre al disordine, è l’odore: si respira un’aria pesante in quella camera, un’aria densa, sporca. Lasciami aiutarti, lasciami starti vicino, parlami. I tentativi di avvicinarsi sono inutili. Quella cosa, a cui il padre di Marcella non riesce a dare un nome, qui lo chiameremo disagio. Un disagio che si espande: Marcella, la stanza, gli altri componenti della famiglia, tutta la casa. Al padre viene in mente il racconto ‘Casa occupata’ di Cortázar. Ma qui, appunto, non si tratta né di un libro né di un film. È la vita reale, di quella ragazza, di quella famiglia, di tanti ragazzi e di tante famiglie. Ragazzi rinchiusi, isolati dal mondo reale, collegati con l’esterno soltanto tramite i social, privi di stimoli, sfiduciati, fermi in una sorta di limbo (sul tema rimandiamo all’approfondimento).
Il padre esce dalla stanza della figlia sconfitto, ancora una volta. La rabbia cede lo spazio all’impotenza. Come aiutarla? Il pediatra l’ha visitata e non ha trovato nulla di “fisico”. Ha parlato di segni di depressione giovanile. Depressione giovanile? Cosa vuol dire? Come la si cura? Una segnalazione è stata fatta all’Uap (Ufficio aiuto e protezione del Cantone). I servizi sociali rispondono e intervengono tempestivamente. Una sera un brutto episodio fa alzare il livello di allarme: a cena, mentre tutti sono seduti a tavola, la ragazza dà in escandescenze per un qualche futile motivo, prende il piatto e lo lancia contro il pavimento, il piatto si spacca, la pasta e il sugo volano ovunque sotto lo sguardo attonito di genitori e fratelli. Abbiamo superato il limite, pensa il padre. Pensa la stessa cosa l’assistente sociale dell’Uap. Alla proposta di riprendere la psicoterapia, la risposta di Marcella è: io sto bene. Di fronte all’insistenza del padre, la ragazza inizia a contrattare: se vuoi che vada dallo psicologo mi devi dare una paghetta. Il padre si rifiuta. L’aiuto terapeutico non c’è. Viene attivata la cellula di urgenza. Dopo l’episodio del piatto spaccato alla ragazza viene proposto un ‘time-out’: 72 ore fuori casa in un posto sicuro, seguita dagli educatori. Marcella accetta. Quando sta per partire con l’educatrice la ragazza abbraccia il padre, piange. Anche lui piange, dentro. È per il suo bene, si dice mentre la vede allontanarsi.
Al suo rientro a casa tre giorni dopo la situazione rimane tesa. L’educatrice tenta di attivarla, di creare un legame. In parte ci riesce. Ma c’è quella cosa lì attaccata, quel disagio che non va via, che non lascia la ragazza in pace. Il padre pensa a John Coffey, quel gigante buono del ‘Miglio verde’ con dei poteri soprannaturali, in grado di assorbire i mali degli altri. Farebbe qualsiasi cosa pur di aiutare sua figlia. Ma non c’è nulla che lui possa fare.
L’inverno è alle porte, la fine dell’anno si avvicina, sono quasi tre i mesi senza andare a scuola. Nei vari incontri di rete si comincia a parlare di collocamento. L’educatrice riferisce che la ragazza stessa ha chiesto di poter andare in istituto. A casa mi sto spegnendo, dice Marcella. L’orientamento è chiaro, il problema ora è burocratico: per andare in istituto ci vuole un posto libero. Ci vuole del tempo.
Passano i giorni, poi il posto si libera. Sarà davvero la scelta giusta? Potranno aiutarla? Nessuno lo sa con certezza, ma il tentativo va fatto. Marcella prepara le sue cose. Padre, educatrice e assistente sociale la accompagnano in un viaggio verso un luogo sconosciuto. La ragazza sembra tuttavia serena. Forse lei ha capito che allontanarsi da casa, almeno per un po’, è quello che le serve. Arrivano a destinazione. Vengono accolti. Lei sistema le sue cose nella stanza, che è carina ma un po’ fredda. Il padre la abbraccia e parte. Sale in macchina per tornare a casa. Chiude gli occhi, vede sua figlia, non ora ma anni prima, piccolina, che balla sul tetto del furgone, c’è il sole e la musica al massimo (Le Rane, di Mannarino). La canzone finisce e lei non sa come scendere da lassù. Salta, io ti prendo – le dice –, conto fino a tre: uno, due, tre. Lei ride e salta, fiduciosa.