Testimonianze di violenza, guerra e speranza di riscatto da Kherson, dove i soldati russi sparano a coloro che dicono di voler liberare
Oksana sta guardando la strada in attesa di un camion di aiuti che è in arrivo da Cerkasi, città dell’Ucraina Centrale. Ha una camicia a grossi scacchi rossi e neri e i capelli color arancione tagliati alla cosacca. È un consigliere comunale qui a Kherson e il suo partito è quello dell’ex presidente ucraino Petro Poroshenko. “Quando arrivate? Guardate che già intorno alle quattro qui non trovate più nessuno”, dice al telefono. ‘Il gatto di Odessa’ campeggia su una parete e all’ingresso di uno dei sottopassaggi sulla piazza principale della città. È una delle opere dello street artist LBWS. Il gatto ha una bomboletta spray in mano e ha disegnato un nastro giallo, simbolo della resistenza della popolazione di Kherson contro gli occupanti russi.
“La mattina ci siamo svegliati con le esplosioni e la prima cosa che ho fatto quel giorno è stata scrivere un post su Facebook dicendo che stavamo raccogliendo aiuti umanitari per i nostri combattenti. Così abbiano iniziato la nostra resistenza. C’era già la fila al centro di reclutamento della difesa territoriale. In quel momento ho veramente capito chi era patriota e chi invece un traditore. La città non è stata occupata subito, ci hanno inizialmente accerchiati e poi, dopo circa una settimana, sono entrati. Molti civili sono morti in quei giorni combattendo contro i russi, molti semplici cittadini che hanno imbracciato le armi insieme ai soldati”.
Per Oksana quei giorni sono un ricordo che ancora fa male, che le toglie il fiato, come continua a ripetere. Più di una volta quando racconta deve interrompersi, i suoi occhi diventano lucidi. Ha cercato in tutti i modi di non avere contatti con i russi, di rimanere nascosta da amici perché era conosciuta come volontaria e per la sua attività di consigliera comunale del partito di Solidarietà Europea dell’ex presidente Petro Poroshenko. “C’erano diversi centri in città dove le persone venivano torturate: spesso erano edifici della polizia o dei servizi segreti ucraini e quando queste vittime venivano rilasciate dai russi, si riusciva facilmente a identificare quel posto”, racconta Oksana. “Poi hanno iniziato a incappucciare le vittime e a liberarle in altri luoghi. Non sapevi più di chi fidarti. Spesso coloro che ritenevi di conoscere erano proprio quelli che ti tradivano. Uno di questi era un avvocato e questo gli ha permesso di costruire dossier su centinaia di persone. Io lo conoscevo fin dalle scuole superiori e ho visto quest’uomo che prima stimavo trasformarsi in un delatore. Ora è scappato, sta dall’altra parte del fiume, non era un pezzo grosso in cima alla lista dei ricercati ma so già che è stato aperto un procedimento giudiziario nei suoi confronti e adesso rischia dodici anni di carcere. Questo mi dà la speranza che a breve tutti coloro che hanno collaborato con i russi e fatto la spia, facendo condannare a morte o a pestaggi e torture molte persone, prima o poi dovranno affrontate la giustizia. La cosa importante adesso per noi è la vittoria, vogliamo liberare l’altra sponda perché tanti di noi hanno parenti ancora sotto occupazione. Mia nipote e sua figlia vivono dall’altra parte del fiume. Quando riusciamo a parlarci sento che stanno perdendo la speranza di tornare libere. E io e molti altri non ce ne andiamo via di qui, anche se è pericoloso, perché vogliamo dare con il nostro esempio un supporto morale, mostrare che non abbandoniamo i nostri fratelli e sorelle”.
In molte zone di Kherson sembra di muoversi sul set abbandonato di un film. La città, liberata lo scorso undici novembre dalle truppe ucraine, ancora oggi stenta a ripartire. Molti negozi sono chiusi e molti ancora hanno deciso di non rientrare perché qui le bombe russe continuano a cadere. I bombardamenti avvengono ovunque. È come stare sulla linea del fronte. I russi hanno colpito il mercato centrale e uno dei pochi supermercati aperti. Tutto a poche centinaia di metri dalla piazza centrale. L’ultimo attacco di mercoledì tre maggio è stato una strage: sedici morti e decine di feriti. Anche il treno che era in partenza per Leopoli è stato centrato da un colpo di artiglieria.
Vivere a Kherson è un incubo. Eppure molti rimangono qui, come Oksana. Il fiume Dnipro è in gran parte inaccessibile ai media, droni e cecchini operano su parte della zona costiera. A circa trecento metri dalla riva, sulla strada principale che passa per la piazza dove si trova la sede del governo regionale, i due lati del marciapiede sono chiusi con del nastro bicolore. I cartelli rossi con la scritta ‘attenzione mine’ sono ben visibili. C’è un palazzo semidistrutto delle autorità portuali sulla sinistra. Poco distante da un’altra palazzina escono degli uomini, poliziotti. “Non andate oltre verso il fiume, è pericoloso. I russi sparano anche con le mitragliatrici pesanti”. In questa zona le persone sono ancora più rare che nel resto della città e quasi nessuno si muove in macchina, soprattutto dopo una certa ora. Durante la loro ritirata i soldati di Mosca non solo hanno saccheggiato negozi e appartamenti, ma anche i luoghi di cultura. Come il museo nazionale. “Le opere più importanti, le perle intorno alle quali ruotava tutta l’esposizione erano le opere di Mykhailo Shibanov. Si tratta di pittura religiosa. Dire che ci dispiace per la loro perdita non rende abbastanza”, spiega Igor Rusol, il vicedirettore del museo. “A parte Shibanov avevamo tante altre opere bellissime. È difficile spiegare a parole, bisogna vederle. Le opere preziose di Oleksii Oleksiiovych Shovkunenko, di cui il museo porta il nome, altri pittori locali. Hanno portato via tutto. Una stima provvisoria parla di un danno intorno al miliardo di dollari”. Quasi tutte le opere si trovavano nel deposito perché il museo era in fase di ristrutturazione. Chiediamo al vice direttore di farci vedere cosa è rimasto. Nel deposito ci sono due tele appoggiate al muro. Entrambe raffigurano Lenin. “Erano così fieri della loro storia – racconta – che l’hanno dimenticata qui. Hanno lasciato qui uno dei loro ‘padri’. Pensate che abbiano rubato solo i quadri? Si sono portati via dal museo anche le lampadine. Fortunatamente hanno lasciato i sanitari. Non sono degli esseri umani. Hanno lasciato le loro famiglie per venire qui accampandosi in fossi e trincee per sparare e uccidere civili. Mi mancano le parole, provo solo disgusto e orrore”.
Fuori dal museo il sole incomincia a calare. È così bello il fiume Dnipro a quest’ora della giornata. Il silenzio è rotto solo dal cinguettio degli uccelli. Non si sentono voci umane o rumori di macchine. Della vita frenetica che doveva avere il suo porto con i navigli in movimento e delle barche dei pescatori che si muovevano da un lato all’altro, non è rimasto nulla. “È pericoloso uscire in barca, si rischia di essere ammazzati, e poi c’è anche una multa di 30mila grivne”, dice Ivan, settant’anni. “Ho sempre abitato qui. Mia moglie è russa, il mio vicino moldavo e lì in fondo c’è anche una famiglia bielorussa. Kherson è sempre stata una città internazionale e qui non abbiamo mai avuto problemi. Poi sono arrivati i russi. Quando eravamo sotto occupazione alcuni soldati mi hanno detto che sarebbero andati avanti fino a Odessa, che avrebbero preso tutta l’Ucraina, ma alla fine sono scappati. Ci dicevano che erano qui perché volevano liberarci e che eravamo tutti russi ma non è vero, noi siamo ucraini. E oggi ci sparano addosso e ci bombardano”. Ivan ha lavorato tutta la vita alla fabbrica di dolci di Kherson fino a quando non è stata chiusa qualche anno fa. Ha una piccola casa modesta che si affaccia proprio sul fiume. L’altra parte della riva è a meno di un chilometro. I vicini raccontano che soprattutto la notte si sentono rumori di piccole e veloci imbarcazioni. A volte russe, altre volte delle forze speciali ucraine. “Se ho paura a stare qui? Certo che ho paura. Io dormo in macchina nel garage, non dormo in casa. Ma ho un gatto, due cani e le mie galline e mia moglie adesso è in ospedale perché le hanno amputato un piede per il diabete. Dove volete che andiamo? Noi stiamo bene qui. Non ho altri luoghi dove vorrei trasferirmi E poi era così bello, qui. E lo sarà di nuovo. Se sentiamo i droni però scappate subito dentro da me, qui hanno già sparato più di una volta e una donna è rimasta ferita”.
A qualche centinaio di chilometri di distanza Dnipro continua nel suo processo di adattamento, di trasformazione e di ritorno alla vita e alla normalità. Come Kiev, che è tornata ad avere la popolazione quasi pari a quella preesistente prima della guerra. Questo grazie ai sistemi antiaerei forniti dagli Stati Uniti e dai paesi europei. Anche qui, rispetto a un anno fa, tutto sembra essere tornato alla quotidianità di sempre. Ha riaperto una famosa catena di fast food in centro, gli operai del comune tagliano l’erba nei parchi, il lungofiume è pieno di gente, il coprifuoco è stato spostato alle undici di sera. Sembra tutto normale, anche se gli allarmi antiaerei continuano a suonare e anche se sporadicamente la città viene colpita dai bombardamenti russi. La guerra però ha devastato le persone dentro, lasciando tracce indelebili. È qualcosa che ti trasforma irreversibilmente. Niente sarà più come prima, anche quando tutto sarà finito.
“Non torni più indietro dalla guerra, non come eri prima di incontrarla. Quando penso a mia moglie, ai miei due bambini e al fatto che potrebbero crescere senza un padre, sto male. E nello stesso tempo mi sento un debole, perché in guerra non puoi avere delle debolezze, non puoi pensare al fatto che morirai e che qualcuno soffrirà perché altrimenti non fai bene il tuo lavoro, hai paura. Un guerriero non può permetterselo”. Andrii attacca a bere il terzo bourbon. È seduto al bancone di un bar. Ha appena venduto il locale che aveva aperto un anno prima dell’invasione a un paio di giovani imprenditori scappati da Mariupol. Al piano superiore c’è una piccola saletta, una sorta di covo dove passa spesso il suo tempo libero bevendo con i suoi amici e guardando video musicali pieni di immagini di posti lontani, spiagge caraibiche e nature incontaminate. Un luogo dove tiene anche i sui fucili d’assalto, granate, pistole, coltelli, equipaggiamento militare. A casa non torna quasi mai. Tornerà solo se ritroverà sua moglie e i bambini quando aprirà la porta, e quel momento è ancora lontano, perché loro sono in Polonia. Sta aspettando che la sua unità finisca di sistemare la base che hanno sul fronte sud, sotto Zaporizhzhia, e poi tornerà a combattere. Unità esploratori. Sa che ogni volta potrebbe essere l’ultima. I vecchi tram rossi di Dnipro sferragliano e arrancano su Olexandra Polia. Migliaia di tulipani fioriti riempiono di colori diversi prati e aiuole. Andrii finisce il suo bourbon e saluta, sparendo nel suo mondo al piano di sopra.