laR+ IL COMMENTO

Il ‘sultano’ sul filo della vittoria

Mentre il risultato delle elezioni appare avviato al ballottaggio, la fine del potere di Erdogan appare meno vicina

In sintesi:
  • L’opposizione non sfonda
  • L'elezione lascia aperti molti interrogativi sul fronte internazionale
(Keystone)
15 maggio 2023
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Si scrive presidenziali, si legge referendum. Dopo 20 anni di leadership, non sembra ancora giunta l’ora della deposizione del ‘reis’ (il capo) Recep Tayyip Erdogan, che dopo aver contribuito alla modernizzazione del Paese lo ha progressivamente ingabbiato nelle maglie dell’Islam politico, repressivo, populista e nazionalista. Se i risultati provvisori si confermeranno (Erdogan leggermente sotto il 50%) si andrà al ballottaggio il 28 maggio. Elezioni a forte valenza internazionale, per le implicazioni sugli assetti diplomatici e politici globali, dalle quali emerge un Paese spaccato.

La generazione Z (5 milioni di potenziali elettori – su 65 milioni – per la prima volta alle urne) e le donne (malgrado l’involuzione dei loro diritti e il contestato ritiro della Turchia dalla Convenzione di Istanbul per la prevenzione della violenza di genere) non hanno fatto la differenza. Così come il voto dei 15 milioni di curdi fortemente discriminati e che avrebbero dovuto costituire l’ago della bilancia. Prevale una forte componente tradizionalista, soprattutto nelle campagne, dove il ripristino dello Stato di diritto e il ritorno al secolarismo democratico promessi dall’opposizione non sembrano considerati prioritari. L’ideologia della fratellanza musulmana con i suoi addentellati complottisti (il mondo musulmano minacciato dall’Occidente) associata a una violenta retorica patriottica (oltre al suo partito Akp, il presidente uscente ha potuto contare sul sostegno dell’estrema destra dell’Mhp) hanno contribuito a creare una spessa cortina fumogena: l’inflazione a livelli stratosferici (attorno al 100%), la disoccupazione, la caccia alle streghe con arresti nelle università, tra i sindacati, nei tribunali e naturalmente nei media avrebbero potuto affossare le speranze di rielezione di Erdogan. Così come la calamitosa gestione del post-terremoto di febbraio che ha devastato intere regioni uccidendo 50mila persone.

Kemal Kiliçdaroglu, forte del sostegno di un’alleanza di sei partiti di orientamenti diversi (dalla sinistra a dissidenti dello stesso Akp fino ai curdi dell’Hdp) aveva suscitato enormi speranze di cambiamento. Erdogan è però statista abile: dapprima sindaco di Istanbul, ha poi vinto le successive cinque elezioni parlamentari, le due presidenziali oltre a tre referendum modellando progressivamente il Paese. Leader scaltro, non ignora la forza della propaganda, vellicando i fedeli con la trasformazione di Santa Sofia da museo in moschea, denunciando complotti terroristici o rispolverando la ‘grandeur’ imperiale, facendo erigere ad Ankara un Palazzo Presidenziale grande quattro volte il castello di Versailles.

Per le sue implicazioni in politica estera, la consultazione è verosimilmente la più importante in assoluto di questo 2023: la Turchia è nell’Alleanza Atlantica, fornisce materiale bellico a Kiev (una delle figlie del presidente è sposata al rampollo della famiglia produttrice dei celebri droni Bayraktar), ma è partner economico ed energetico di Mosca e ha mediato gli unici accordi in oltre un anno di guerra, quelli sul grano ucraino. Equilibrio diplomatico molto delicato, che Kiliçdaroglu probabilmente non modificherebbe nella sostanza. L’Europa e la Nato puntavano comunque su di lui per avviare un disgelo costruttivo. Speranze a questo punto appese a un filo. La notizia della morte politica del ‘sultano’ appare a questo punto davvero prematura.