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Vita, successi, canzoni ed eccessi del ‘Prévert di Trastevere’

Mostrandolo al di là degli stereotipi, cercandolo soprattutto nei testi delle canzoni, Giangilberto Monti e Vito Vita hanno scritto di Franco Califano

Franco Califano
8 maggio 2023
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Prima incasellato, poi ingabbiato e infine cristallizzato nel personaggio che si era costruito addosso, Franco Califano non veniva preso sul serio come cantautore neanche dai suoi discografici, che lo etichettavano con l’orrido neologismo di canta-paroliere. Non scimmiottava la poesia ermetica per rappresentare un romanticismo sottoproletario che aveva invece bisogno di versi semplici e diretti; disdegnava tanto l’efferata musique de robinet delle canzonette commerciali quanto il famigerato messaggio dell’impegno politico; il suo maledettismo era stemperato da quell’ironia tipicamente romana che è una corazza e una forma di autodifesa; e infine un certo iperattivismo sentimentale lo collocava, ai severi e ascetici sguardi di chi dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio, come il perfetto seguace di una superficiale concezione tolemaica che farebbe ruotare l’universo intorno all’urna molle e segreta celebrata da Pascoli: requisiti, ma sarebbe più appropriato dire marchi, che impedivano di accomunarlo a colleghi più austeri e più considerati.

‘Franco Califano. Vita, successi, canzoni ed eccessi del Prévert di Trastevere’ di Giangilberto Monti e Vito Vita, edito da Gremese, è un’indagine su un cittadino al di sotto di ogni sospetto che si propone di mostrarlo al di là degli stereotipi, cercandolo soprattutto nei testi delle canzoni. Se, come ha scritto Italo Calvino, l’esperienza è la memoria più la ferita che ti ha lasciato, più il cambiamento che ha portato in te e che ti ha fatto diverso, il Califfo è nei versi con cui traduceva la perplessità, il disagio, a volte l’impotenza di fronte a una vita sgualcita che non riusciva a stirare. Senza slanci metafisici, perché gli era sufficiente ciò che è terreno e immediato, e senza velleità innovative, perché di nuovo al mondo non vedeva nulla, se non la posizione che un essere umano poteva assumere di fronte alla realtà. Una realtà concreta, fatta di cose, di oggetti abbandonati su cui riposa la polvere degli anni, come le bottiglie, i vasi, le caffettiere ritratte da Giorgio Morandi. Canzoni come nature morte, con ciò che rimane della schiuma dei giorni quando la musica è finita, l’ultimo amico va via, l’ennesimo amore è naufragato tra incomprensioni, ripicche, giudizi e silenzi e si rimane soli, tra libri abbandonati e chitarre scordate, a contemplare l’evidenza dell’autunno in quattro barche stanche che hanno preso sonno, domandandosi che cosa fare di tutta questa libertà. Un’attitudine malinconica, che nelle occasioni pubbliche veniva nascosta da comportamenti un po’ alla Petrolini, quasi una protezione per guardare la vita negli occhi senza timore, e che negli spettacoli e nei primi album veniva stemperata da sensazionali monologhi in versi, in cui Califano scatenava tutta la sua comica, cinica e spesso triviale romanità.

Ed è lo spazio dato a questi momenti da café chantant, insieme alle inedite testimonianze di amici e collaboratori, il contributo più interessante del lavoro di Monti e Vita, perché aggiunge il tassello del filosofo di strada, dell’osservatore disincantato e tollerante della quotidianità, che sa sorridere delle miserie e dei sotterfugi con cui i poveri diavoli come lui tirano a campare. In ‘Pasquale l’infermiere’, ad esempio, un uomo si rivolge all’amante in dolce attesa, che pretende il riconoscimento del nascituro pur essendosi intrattenuta, nel periodo del concepimento, anche con un intraprendente infermiere, circostanza che complica l’identificazione del padre: “Si fossi certo d’esse er padre vero / sarei pure contento te lo giuro / ma a occhi chiusi rischio bene o male / de riconosce er fijo de Pasquale”. Il buonsenso può suggerire una soluzione, ma non cancellare il dubbio: “Crescesse cor carattere che ho io / fo sempre a tempo a dije fijo mio / ma si smettesse un giorno de studiare / e decidesse de fa’ l’infermiere / je dovrò dì nel modo più leale / sei ‘n fijo de ‘na mignotta e de Pasquale”.