Berlusconi è stato un confine, una barricata che ha diviso modi di essere e di pensare, definendo un popolo e le sue anime contrapposte
Silvio Berlusconi è stato la misura di quello che gli italiani volevano e non volevano essere, lo specchio che rifletteva in controluce quel che di noi non volevamo vedere, il limite oltre il quale iniziavano le discussioni e – talvolta – finivano le amicizie. Berlusconi è stato un confine: o stavi di qua o stavi di là. O con lui o contro di lui. Ammettiamolo: c’è stato un tempo – che oggi sembra lontanissimo – in cui c’era chi l’avrebbe voluto vedere morto, pagando pure qualcosa di tasca sua, e chi gli avrebbe affidato la vita e pure il portafoglio.
Era l’epoca in cui Berlusconi prese in ostaggio un Paese intero, tra il 1994 e il 2011 (e oltre, se pensiamo ai processi e non solo ai suoi governi), diventando un caso internazionale e anche la prima domanda che facevano gli stranieri – tedeschi o guatemaltechi che fossero – a un italiano: “Ma dimmi, questo Berlusconi?”. Rispondere sembrava facilissimo eppure era difficile. Come lo spieghi uno così a qualcuno che non ci è cresciuto dentro?
Berlusconi davanti ai giudici (Keystone)
La gente vedeva da fuori, da lontano – che era come guardare con il telescopio da un’altra galassia – questo ultramilionario (allora, ai tempi delle lire, si diceva miliardario) che era troppe cose assieme: primo ministro, proprietario di tv, giornali, banche e assicurazioni, chansonnier, presidente del Milan. Com’è possibile? Anche solo due di quelle cariche sovrapposte sarebbero bastate per far venire l’emicrania o un infarto ai più, ma a lui non bastava: quel che non era lo impersonava alla bisogna se c’era da strappare un voto, un numero di telefono di una bella donna o anche solo una risata. Berlusconi, da buon egolatra, dopo essersi inizialmente stupito di non piacere a tutti, aveva capito che c’era solo un modo per continuare ad accumulare abbastanza energie da rimanere in piedi: farsi amare e odiare in egual misura, un po’ come una batteria che funziona solo se il polo negativo e quello positivo fanno entrambi il loro dovere.
Per sopravvivere politicamente in un Paese in cui mai e poi mai – con un paio di regole facili facili o con almeno un po’ di senso civico – avrebbe dovuto fare politica, Berlusconi ha deciso di distruggerlo, promuovendo l’uso sconsiderato del menefreghismo, calpestando le leggi, sdoganando fascisti, coccolando i peggiori istinti di un popolo e di una classe politica che sembrava non avessero bisogno d’altro per smettere di giustificarsi e sentirsi presentabili. Lì, in quella trappola, c’è caduto il Paese intero che si è messo a litigare con, su e per lui, mentre lui, lasciando il simulacro di sé stesso a fare da punching-ball, continuava a farsi gli affari suoi.
Aveva capito l’Italia e gli italiani meglio di chiunque altro: aveva ipnotizzato i suoi adepti, ma anche e soprattutto i suoi detrattori, trascinandoli a battagliare su un terreno che non era il loro.
Ora che non c’è più e iniziamo a uscire dalla palude da lui creata in cui di fatto molti italiani sono nati, cresciuti e persino invecchiati, si capisce meglio come Silvio, come ormai lo chiamavano tutti – complici e avversari – non fosse in realtà il nemico dall’altra parte della barricata, ma la barricata stessa. Berlusconi ha costretto gli italiani a scegliere da che parte stare, unità di misura di un popolo senza mezze misure.
A Porta a Porta, con Pinocchio sullo sfondo (Keystone)