Per Trump la verità conta poco. A contare è la versione che decidi di dare a bere in giro, lo ha fatto anche davanti al tribunale di New York. Basterà?
Il rasoio di Occam è quel metodo per cui davanti a un problema e alle sue svariate soluzioni bisogna sempre affidarsi a quella più semplice. Lo stabilì nel XIV secolo un frate-filosofo francescano, Guglielmo di Occam.
Esempio moderno: se vedi in cielo delle luci che si muovono, prima di pensare che sia un disco volante, pensa a un aereo, a un satellite o a una stella cadente. Insomma, la verità, spesso, ce l’abbiamo sotto il naso, inutile girarci intorno.
Sette secoli dopo Donald Trump ha portato all’estremo questo assunto scientifico-filosofico, snaturandolo: qualsiasi problema tu debba affrontare, fregatene della verità, e anche di risolverlo: l’importante non è trovare la spiegazione semplice, ma quella che attrae le menti più semplici.
Ci ha costruito una carriera da imprenditore, poi da showman, infine da politico. Ieri, mentre il mondo aspettava che si presentasse in tribunale per rispondere di 34 capi d’accusa, se n’è uscito sul suo social network personale (“Truth”, verità) con questa frase: “Wow, mi arresteranno. Non riesco a credere che tutto questo stia accadendo in America”.
Come se fosse impossibile che in un Paese dove vige lo Stato di diritto non si possa incriminare un uomo che ha usato il denaro della sua campagna elettorale per mettere a tacere qualcuno. Come se fosse impossibile che in America potessero incriminare proprio lui. E invece è possibile, eccome.
Ai giudici interessa (si spera) la verità, e la stanno cercando. A Trump no, a lui interessa la verità, tra le tante possibili, che possa convincere più persone: se poi è una bugia, tanto meglio, ci si può ricamare di più sopra.
Trump in tribunale, sguardo preoccupato (Keystone)
Gli hanno creduto e gli stanno ancora credendo in molti. Che faccia metto su in tribunale quando mi fotografano? Quella contrita, dell’uomo solo contro il sistema. La capiranno tutti. Come mi comporto per strada? Alzo il pugno come un barricadero, come il rivoluzionario (in giacca e cravatta) che promette la rivoluzione. E se salta fuori la foto segnaletica? Esibiamola in campagna elettorale. Avere una foto segnaletica con la propria faccia dentro non è in teoria buona cosa, ma se sei Donald Trump potrebbe diventarlo. Lui lo sa e inizia a confondere le acque, schiaffando sotto i riflettori solo quel che gli fa comodo.
Un’intera campagna elettorale da galeotto è un regalo fin troppo ghiotto: l’essere perseguitato da un sistema di potere chiuso è già la sua verità da rifilare in giro. Sa anche di poter correre alla presidenza perfino dal carcere: la Costituzione non lo impedisce. Nel 1920, un uomo all’opposto di Trump lo fece: si chiamava Eugene V. Debs, un socialista ai tempi in cui il socialismo era una cosa seria, fondatore di un sindacato. Al marketing elettorale ci arrivarono perfino i socialisti del secolo scorso, che distribuirono spille con le sue foto in uniforme da carcerato e la scritta “Prigioniero 9653”. Prese alla fine il 3,4 per cento e dovette aspettare due presidenti prima di avere la grazia.
Adesivo con Trump carcerato (Keystone)
Qui però non si tratta di un oscuro sindacalista rosso nella terra degli anticomunisti, ma di un uomo che per molti è l’essenza stessa dell’America, o almeno di una sua parte visibile e molto invidiata, molto votata: ricca, chiassosa, eccessiva, retrograda, donnaiola ed egomaniaca. Trump ci marcia con quel “sono come voi” che suona più come un “sareste come me, se solo poteste, ammettetelo”.
Il rasoio di Donald, che in passato ha fatto il contropelo a tutti, è uscito dal tribunale sempre più affilato. Mai come ora però è lui quello che rischia di tagliarsi.