In una biografia sui generis scritta a quattro mani, vita e opere del celebre giornalista e geniale scrittore comasco scomparso la scorsa estate
Un libro dall’impianto singolare, ‘Il cantastorie instancabile’, biografia del Gianni Clerici scrittore e giornalista scritta da Veronica Lavenia e Piero Pardini e pubblicata da Le Lettere; privo di un’impostazione cronologica che, del resto, si sarebbe rivelata fallimentare, di fronte alla complessità e all’imprevedibilità di uno scrittore prestato allo sport (l’affermazione è di Italo Calvino), che per trovare il proprio posto nel mondo si era potuto concedere il lusso di scegliere le vie più congeniali alla sua allegra irrequietudine di intellettuale cosmopolita.
Scrittore o, come civettuolmente amava definirsi, scriba, e non altro: “Non sono un reporter. Soltanto i cani setter riportano al padrone la preda. Io racconto”. Ed ancora: “Non sono un giornalista sportivo ma un infiltrato. Non mi sono mai identificato in nessuna categoria”.
Salvo poi concedere: “Il reporter o cronista, che dir si voglia, può raggiungere l’obiettività poiché riferisce dei fatti oggettivamente. Il columnist, per definizione, non deve essere obiettivo perché la column è soggettiva”.
E difatti, mentre da un comune cronista di tennis ci si aspetta nulla di più che l’onesto resoconto di una partita, Clerici amava partire per la tangente, aprendo finestre su ricordi, riflessioni, divagazioni, concentrandosi su particolari rivelatori che sfuggivano all’invadenza delle telecamere e all’implacabilità delle statistiche: smorfie, sguardi, tic nervosi, la cui interpretazione trasformava i tennisti negli attori di un dramma pubblico, nei pazienti di una seduta di psicoanalisi (“In campo vedi il coraggio, la correttezza, l’ingegno, l’improvvisazione, una quantità di caratteristiche che definiscono la nostra personalità”), la realtà in una vicenda da mettere in scena. “Se leggete Clerici”, osservava il suo sodale televisivo Rino Tommasi, “non saprete mai chi ha vinto, ma lui vi spiegherà il perché”.
E lo spiegava irretendo il lettore con un tono rilassato e confidenziale, da disincantato maestro del savoir vivre, da ultimo lord che, come ha notato Bruno Quaranta, seduceva palleggiando la parola, applicando un procedimento che sta tra la scrittura ad anello e il flusso di coscienza: “Mi attengo ai metodi della scrittura automatica dei futuristi, e di quel Marinetti che venne a morire proprio sul lago di Como, a Bellagio. Inizio come fosse una lettera, una annotazione, e poi tutto viene da sé. Provo autentica compassione per alcuni miei colleghi i quali, alla fine di una giornata trascorsa a guardare gli incontri telefonano al loro caposervizio, che magari sta a Roma o Milano, costretti a farsi suggerire cosa scrivere. Lo trovo una follia”.
Follia è stato per Clerici quasi tutto ciò che per altri è stato normalità e abitudine: da studente liceale conseguì una doppia maturità, classica e scientifica; da universitario, respinse l’offerta di una carriera accademica dopo la tesi in un argomento su cui all’epoca mancavano specialisti, la storia della religione romana; da militare pacifista, assolse l’obbligo di leva non andando oltre il grado di alpino semplice conduttore di mulo; da futuro marito, riuscì a sposarsi in chiesa senza avere neanche la prima comunione; da giornalista, respinse l’offerta di Silvio Berlusconi di dirigere i servizi sportivi delle sue reti televisive per un’irriducibile idiosincrasia al comando.
Un altro rifiuto, quello di mettere piede in uno stadio di calcio dopo una disavventura con un gruppo di facinorosi sostenitori dell’Atalanta, gli costò un licenziamento in tronco, seguito ventiquattro ore più tardi dalla riassunzione.
Decisamente più prevedibile lo snobismo della società letteraria, che ha sempre trovato diminutivo occuparsi di sport, nei confronti dello Scriba, che è stato anche romanziere e poeta. Il suo primo romanzo, ‘Fuori rosa’, fu presentato da Mario Soldati e Giorgio Bassani al premio Strega: “Con risultati modestissimi, perché la mia ancorché piccola notorietà giornalistica non può che nuocermi in un ambiente, come quello letterario romano, che scopro incredibilmente provinciale. La stessa patronessa dello Strega, la Signora Bellonci, giungerà a dirmi: Ma lei è lo stesso che si occupa di sport sul Giorno? Ci mancava aggiungesse che facevo correttamente i congiuntivi”.
Quasi a risarcirlo di questa diffidenza, la prima parte del libro ricorda le prove letterarie di Clerici, solo nei suoi ultimi anni finalmente ammesso alla lobby degli scrittori. Di quella dei tennisti aveva fatto parte, con risultati tutt’altro che disprezzabili, che rievocava prendendosi simpaticamente in giro.
A proposito della crisi di panico che paralizzò Jana Novotna nella finale di Wimbledon del 1993, eccolo ammettere: “Ho conosciuto, nella mia vita di giocatore, soltanto una tennista più paurosa di Giovannona Novotna. Quella tennista, devo alfine confessarlo, ero io. Anagraficamente registrato come Giovanni Clerici, regolarmente battezzato come maschietto, la mia componente femminile emergeva in tutta la mia fragilità in quello che gli spagnoli chiamano el momento de la verdad. In quell’istante, la mano che regge la racchetta non deve tremare… ma ai tempi in cui tentavo invano di passare il primo turno a Wimbledon, io non lo sapevo. Al primo game perduto ero terrorizzato. Una vera e propria crisi di impotentia ludendi. Solo pochissimi amici e non più di venti spettatori hanno assistito a simili penose vicende”.
Del resto è inevitabile che, in un libro del genere, spicchino gli aneddoti. Notevole quello raccontato da Bud Collins, leggenda del giornalismo sportivo statunitense, che accompagnò Clerici in Sardegna per seguire un turno di Coppa Davis.
“Era periodo di elezioni e le strade cagliaritane erano ornate da ampi striscioni di pubblicità elettorale. Guidavo la macchina presa in affitto quando Gianni, prontamente, disse di fermarmi. Indicò un manifesto, brontolando: «Io odio quel partito! Movimento Sociale. Sono i nuovi fascisti”. E quindi, risposi? «Quindi lo tireremo giù!». Come? «Ferma la macchina!». Pochi secondi dopo, Gianni era sceso dalla vettura e si arrampicava lungo il palo di alluminio come una scimmia. Un atleta impressionante. Era l’effetto della grappa bevuta qualche ora prima al ristorante, o la sua antipatia nei confronti del partito?”
Fatto sta che, recuperato il senno, Clerici si ricordò che rubare un manifesto elettorale era illegale e dovette ingegnarsi per nascondere il corpo del reato, fino ad escogitare una soluzione tanto geniale quanto assurda: “Guidammo due ore, arrivando fino a un paese dove le persone cavalcavano ancora i somari. Gianni chiese se vi fosse un sarto. Sì, c’era, e l’anziano uomo, anch’egli anti-Movimento, gradì l’idea. Il sarto prese le misure, promettendo che avrebbe fatto del suo meglio. Ebbe un grande talento nel mescolare il nero, il verde, il rosso, il bianco e creare pantaloni (fatti a mano) degni di Missoni. «Pantaloni fascisti!» esclamò Gianni, entusiasta del lavoro di sartoria e dall’avventura che, alla fine, avrebbe abilmente scritto con la sua storica macchina Olivetti. «Apparirà in qualche antologia» disse, «e io sarò lieto di finire nel libro e non in prigione»”.
Sembra di non avvertire soluzione di continuità tra la vita vissuta e la pagina scritta, col sottofondo costante di un’ironia sorniona che rende tutto più leggero e sopportabile, anche nelle circostanze che più si presterebbero al didascalismo e alla trombonaggine: “In principio l’arbitro era in piedi. Stanco, provò a sedersi su una sedia. Non ci vedeva bene, così mise un tavolo sotto la sedia. Poi ne mise due e, per salire sulla seggiola, gli ci volle una scala. Ad un arbitro geniale venne l’idea di incorporare la seggiola nella scala. Inventò, così, il seggiolone”.
E pensare che nel suo studio svizzero (“Io sono tanto bene accetto nella Svizzera italiana, dove ho un rifugio, che ne ho ottenuto la cittadinanza, anche perché parlo il dialetto”) aveva appeso una piccola lavagna su cui si leggeva: “Scrivi bene, cretino”.