Proponiamo l'intervista raccolta in occasione della rassegna letteraria al Monte Verità, a cui l'artista cileno ha partecipato domenica
La prassi imporrebbe di iniziare l’articolo con una breve presentazione dell’intervistato, ma l’operazione, con Alejandro Jodorowsky, è semplicemente impossibile. Gli Eventi letterari Monte Verità, nell’annunciare l’incontro di chiusura andato esaurito in poche ore, lo presentano come “regista, compositore e sceneggiatore di fumetti cileno”; ma è solo un frammento della sua vita e delle sue opere. C’è il film del 1970 ‘El Topo’, definito “il western più strambo mai realizzato” – John Lennon se ne innamorò tanto da produrre il suo film successivo, ‘La montagna sacra’, e Peter Gabriel l’ha citato come ispirazione per l’album ‘The Lamb Lies Down on Broadway’ –; c’è ‘Le cabaret mystique’, serie di appuntamenti itineranti nella Parigi degli anni Ottanta nei quali si parlava di psicanalisi, zen e tradizioni cilene; c’è il suo interesse per i tarocchi e lo sciamanismo; e poi la psicomagia, la space opera a fumetti ‘L’Incal’ realizzata con Moebius, il mai realizzato ‘Dune’ tratto dal romanzo di Frank Herbert al quale dovevano partecipare Orson Welles e Salvador Dalì… Questo ancora parziale elenco spiega sia la leggera soggezione, sia l’indecisione su cosa domandargli nei pochi minuti che il 94enne Jodorowsky ha riservato alle interviste. La soggezione è svanita quando, entrati nella sala dell’albergo dove ha soggiornato in questi giorni asconesi, ci ha accolto con una pacca sulla spalla presentandoci la moglie, l’artista Pascale Montandon, «che mi aiuterà nel caso non riesca a capire bene il suo accento» (frase pronunciata in un francese spagnoleggiante). Quanto alle domande, un paio sono state più che sufficienti per far partire ricordi e riflessioni, proseguendo anche una volta conclusa l’intervista vera e propria. Mentre mettevamo via il registratore, con un triste sorriso Jodorowsky ha ricordato – come esempio delle tante altre cose di cui avrebbe potuto e voluto parlare – un gattino che era entrato dalla finestra quando era un bambino piccolo. «Lo abbracciavo e coccolavo, ma appena mio padre lo ha visto me l’ha tolto dicendo che avrebbe portato malattie e così… zac! Gli ha tagliato la testa davanti ai miei occhi. Può immaginare che cosa abbia significato. E ancora adesso in casa abbiamo sempre un gatto grigio».
Ad aprire l’intervista, un altro ricordo d’infanzia: quello, decisamente meno macabro, della biblioteca del paese cileno dove è cresciuto. La domanda di partenza era come andasse inteso il suo lavoro, se sia più artistico, psicologico, filosofico, scientifico… «Ho cominciato fin da bambino a sentirmi un artista. Per un miracolo della natura ho imparato a leggere a cinque anni, un fenomeno raro che però è accaduto e così, nella piccola biblioteca del paese dove vivevo, ho iniziato a leggere tutti i racconti per bambini, poi i racconti per adulti e poi tutti i libri… la biblioteca era piccola, aveva pochi libri e li ho letti tutti».
Così, ha proseguito Jodorowsky, a nove anni si è sentito uno scrittore e da allora per tutta la sua vita ha sviluppato l’arte. «Tuttavia – ha subito aggiunto con un volto illuminato da un sorriso – a un certo punto mi sono resto conto che questa forma di divertimento ha un ruolo nella ricerca di noi stessi. Perché noi, noi in realtà non ci conosciamo: viviamo nel conscio e non conosciamo affatto i fenomeni dell’inconscio che è l’universo intero che ci riempie».
Per conoscere sé stessi occorre fare il salto verso l’universo, ma questo lo può fare l’arte, non la scienza: «La scienza lavora con le prove, ha bisogno di verificare se una credenza è vera. L’inconscio invece lavora in un’altra maniera, l’inconscio lavora con la libera immaginazione». Di fronte alla morte, ha proseguito Jodorowsky, «l’immaginazione nell’inconscio ci dice che la morte non esiste, esiste il cambiamento perché tutto è in unione, tutto è parte dell’essere».
Così Jodorowsky ha superato l’arte per arrivare alla terapia, ovvero alla psicomagia. «Gli psicanalisti si presentano così, con un orologio in mano e ti dicono “hai quaranta minuti: parla!”. E tu parli, quaranta minuti di “bla bla bla” poi ti interrompono e tu paghi. Paghi per non risolvere nulla perché le parole non risolvono niente: le parole non sono esseri viventi, sono uno strumento per approcciarsi alla realtà, sono il cammino che ci conduce alla verità ma non sono la verità. Quando la verità arriva le parole devono sparire e al loro posto arriva il silenzio». La psicomagia non guarisce con le parole, ma con le azioni, «azioni che possono sembrare surrealiste ma che hanno un significato – incomprensibile per il conscio ma comprensibile per l’inconscio».
In un crescendo di entusiasmo, Jodorowsky ha concluso con una domanda un lungo discorso sul fatto che dobbiamo imparare a immaginare e a lasciare esplodere l’immaginazione anche se ci porta a pensare l’impossibile. «Tu, ad esempio: prova a immaginare qual è il lavoro che realmente vorresti fare? Senza limiti: presidente della repubblica? Generale di un esercito incredibile pieno di bombe atomiche?».
Nella lunga carriera di Jodorowsky, c’è anche la collaborazione con Franco Battiato per il suo film ‘Musikanten’ in cui ha interpretato Beethoven. «Quando Battiato mi ha chiamato per chiedermi di interpretare Beethoven, gli ho risposte “ma tu sei pazzo”, poi ci siamo incontrati, abbiamo parlato e ho capito: Beethoven era un illuminato e Battiato non cercava qualcuno che gli assomigliasse, ma qualcuno che avesse lo stesso spirito – così ho accettato, ho avuto fiducia in Battiato perché Battiato era un vero artista».
E cosa ha pensato del film? «La parte su Beethoven era eccellente – e non lo dico perché facevo io Beethoven. Quello che non ha funzionato è la parte esplicativa, in cui si racconta come si è arrivati a fare questo film: Battiato non ha avuto il coraggio di fare una vita di Beethoven come se fosse un illuminato, non ha avuto il coraggio di fare qualcosa che non capiva. Un artista non deve comprendere tutto quello che fa perché lavora sia con il conscio sia con l’inconscio: Battiato ha lavorato con il conscio, ha lavorato molto bene con il conscio ma l’arte deve avere come scopo la scoperta dell’inconscio. È lo stesso errore al quale è giunto il surrealismo di André Breton: il surrealismo non spiega niente, prende tre parole a caso e crea un linguaggio, ma le cose non si prendono mai a caso».