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Il cocchino di Olmo e l’età dell’erba

Il podcast ‘Quegli stupefacenti anni zero’ (Rsi) rievoca il Ticino dei canapai a cavallo del Duemila

In sintesi:
  • Con uno sguardo umano e tante testimonianze, torniamo agli anni dell'Amsterdam alpigiana
  • C'è un po' di nostalgia, ma anche uno sguardo lucido sui limiti di quell'esperienza
  • Olmo Cerri si conferma eccezionale nel raccontare con delicatezza storie al contempo intime e collettive
29 marzo 2023
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“Ganja, erba, la brasa da far giù nello sbrasometro o nel cocchino, il fumo, il fumello – o meglio: il pot –, le canne, gli spliff, gli spini, gli spinelli, boom, boomalek, shiva, essere stoni, stonelli o stonissimi, andare in fissa, flippare o flascare. Si faceva un gran discutere di canne a bandiera, fatte con i castelli di cartine corte, con filtro a destra o a sinistra, e poi le canne con il filtro a esse, con il filtro a zeta, i carciofi, una giunta o una giuntina, cilum, cilotti, bong di bambù o bong costruiti con la bottiglia in Pet. C’era poi il tiro del coglione, il tiro del carabiniere…”

Quando un suono, un sapore, un profumo o una parola risvegliano l’intenso ricordo del passato, chi vuole darsi un tono lo definisce “madeleine di Proust”, fingendo d’averlo letto. D’ora in poi, molti ticinesi sulla quarantina potranno parlare piuttosto del “cocchino di Olmo”. Dove Olmo è Cerri, regista e autore classe 1984, e il bislacco glossario qui sopra è solo uno dei modi in cui il suo ultimo podcast riaccende la memoria di una generazione: quella che ha trascorso la sua adolescenza a cavallo del Duemila, quando il Ticino, per una combinazione di cavilli legali e spirito imprenditoriale, era diventato l’Amsterdam alpigiana. Allora spuntarono “decine di negozi in ogni centro urbano”, con “chili di erba fumati ogni giorno, un giro d’affari milionario, ogni spazio agricolo invaso dalle coltivazioni”. La “ganja” si poteva comprare sotto forma di “sacchetti odorosi” per profumare gli armadi, trucchetto che per anni – prima d’alcune sentenze e d’un cambio di volontà politica – permise di venderla schivando l’accusa di spaccio. Ma se davvero fosse finita tutta negli armadi dei ticinesi, non ci sarebbe più stato spazio neppure per un paio di mutande.

Luci e ombre

Fu un periodo di libertà, ma anche di affari più o meno loschi, che fecero temere alle autorità una “colombizzazione” del cantone. Inoltre, varietà di cannabis sempre più potenti e cariche di pesticidi contribuirono a destabilizzare le persone più vulnerabili, anche se proprio la (pseudo)legalizzazione permise di tenere relativamente separato il consumo di marijuana da quello di altre sostanze. Nel podcast ‘Quegli stupefacenti anni zero’ ritroviamo insomma la breve età dell’erba durante la quale, per ogni italiano che entrava in Ticino con la Samsonite piena di soldi neri, ce n’erano dieci che uscivano con l’Invicta pieno di foglie verdi; e da certi luoghi di Lugano, che si trattasse del sentiero di Gandria oppure del tetto dell’autosilo Balestra, si levavano “ampie volute di fumo denso”. Per non parlare poi dei parchi, dove “si mangiava, si dormiva, si incontrava gente, si suonava e soprattutto si fumava. Djembé, didgeridoo e palline da giocoliere erano l’armamentario minimo per una domenica pomeriggio, insieme ovviamente ad un bong o un cilum”.

Cerri – che si è già fatto notare come delicato cesellatore di sguardi umani sulla comunità nella quale è cresciuto – è abilissimo nel fare incontrare i due piani della memoria: quello privato, che gli permette di instaurare un’insolita intimità con l’ascoltatore, e quello pubblico, con un’ariosa riscostruzione politica, economica e sociale di quei tempi. Un viaggio nel tempo (stavolta non è solo un cliché giornalistico, giuro) basato su ogni sorta di testimonianza, dall’amico d’infanzia al ‘re della cannabis” Luca Barghini. Senza ovviamente dimenticare il procuratore Antonio Perugini, per i nostri coetanei l’odiato “Perugito”.

Dai Chumbawamba alle guardie armate

“Del passaggio al nuovo millennio e di quei primissimi anni zero ho dei ricordi un po’ confusi”, mette le mani avanti l’autore/narratore non senza autoironia, prima di sparare l’allucinata Tubthumping dei Chumbawamba (“I get knocked doooown…”): altra madeleine – o altro cocchino – generazionale, come nel corso delle puntate saranno gli Oasis, le canzoncine satiriche di Rete Tre e tutto quel che allora pareva il presente e adesso invece agevola un inaspettato rimpianto, dannazione. Che poi anche per Cerri – un po’ come per il Bufalo Bill di De Gregori – “è da poco che l’espressione ‘vent’anni’ fa ha iniziato ad avere un senso. Ho sempre pensato che vent’anni fossero un tempo lunghissimo, invece ‘vent’anni fa’ esiste davvero, anche per me”.

‘Quegli stupefacenti anni zero’, disponibile sulle piattaforme Rsi, non è però una furbesca operazione nostalgia per quarantenni un po’ smarriti, una di quelle gigionate tutte cachinni e mossettine che ormai vanno per la maggiore. Vi troviamo semmai l’occasione per ascoltare, oltre che per indovinare, quel che successe davvero: gli escamotage che permisero la nascita dal nulla di un settore ricco e fiorente (in tutti i sensi), al punto che perfino gli uffici di collocamento vi raccomandavano i loro assistiti, ma intanto servivano le guardie armate in mimetica per pattugliare serre e piantagioni; una cultura giovanile in bilico tra grunge e no global, nella quale però era già difficile distinguere il consumatore dal contestatore (“se anche il capitalismo aveva già vinto, non lo sapevamo ancora”); un successo divenuto in fretta assai ingombrante – una guardia di confine racconta che nei fine settimana i pullman di amanti della cannabis arrivavano perfino da Roma – al punto da mettere in imbarazzo anche la politica; una politica che a sua volta, presa nella morsa del perbenismo, passò da un’ipocrita tolleranza a un’ottusa repressione.

Tra capitalismo e rivoluzione

Per Cerri l’errore è stato illudersi che si potesse lasciare tutto in mano al capitalismo, al punto che abusi ed eccessi superarono la soglia di tolleranza e andarono presto a sbattere contro la legge. Chissà. Quel che è certo è che non fece paura solo la colonizzazione del piano di Magadino e di altre zone agricole (difficile dar torto ai contadini: le serre di marijuana rendevano sei volte quelle destinate alle normali produzioni orticole). Preoccupava anche un consumo incontrollato, tale da conquistare anche i ragazzini delle medie, che in parecchie scuole veniva ampiamente tollerato, forse troppo. Dei timori dei suoi genitori parla anche l’autore, ricordando una lettera che oggi suona un po’ comica un po’ commovente, in cui lo pregavano di smettere di farsi le canne perché la rivoluzione richiede lucidità, mentre la droga serve al padrone per ottundere gli oppressi e fargli combattere le sue guerre. Cosa non si tenta, pur di aiutare i figli.

‘Indoor’ nel salotto buono

La storia ci racconta come finì la corsa. Nel 2003, con l’operazione Indoor, Perugini e centinaia di agenti smantellarono completamente la rete dei canapai, sulla cui superfetazione si temeva anche l’innesto delle mafie. Fu una retata imponente, specie per gli standard ticinesi. Quasi un’americanata.

Se all’epoca avessero detto a Cerri che prima o poi si sarebbe trovato davanti al Perugito, probabilmente si sarebbe abbandonato ad ampi scongiuri. Ora invece è nel “salotto buono” che viene accolto dall’ex magistrato col Maggiolino blu, il quale gli spiega con lucida pacatezza le sue ragioni e le sue preoccupazioni. Oggi anche la sua voce di pensionato, come quella degli allora poliziotti antidroga e delle guardie di confine, appare ammorbidita, quasi bonaria.

Certo, resta l’occasione clamorosamente sprecata per separare il mercato dell’erba da quello clandestino di droghe ben più pericolose, costruendo magari un laboratorio sociale unico in Europa: sempre meglio le serre di certi capannoni vuoti, attirati da chissà quale promessa fiscale. Invece il proibizionismo fece schizzare in alto i prezzi della marijuana sul mercato nero e agevolò così la diffusione della cocaina a basso costo, un problema ancor oggi assai più grave per il contesto ticinese. Ma forse era una scelta che avrebbero dovuto fare i cittadini e la politica, alquanto ondivaghi sul tema. Va a finire che il podcast – grazie anzitutto al ‘tocco’ empatico e naturalmente gentile di cui è capace Cerri – non cede mai alla tentazione di pronunciare condanne manichee. D’altronde non abbiamo più vent’anni, neppure per questo.

‘Podcult’ è una nuova rubrica che prova a raccontarvi i podcast che ci piacciono di più. ‘Quegli stupefacenti anni zero’, prodotto dalla Rsi, è disponibile a questo link. Un’intervista a tutto tondo della collega Clara Storti a Olmo Cerri la trovate qui.

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