laR+ reportage da parigi

Dentro la Rivoluzione nell’era di Instagram

Racconto in prima persona dalle barricate anti-Macron, dopo il colpo di mano sulle pensioni, tra immondizia, fuoco, manganelli, promesse e futuri traditi

Il Marzo 2023 è il nuovo Maggio ’68
(Keystone)
20 marzo 2023
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Giovedì 16 marzo, ore 15.-30. La première ministre Élisabeth Borne ha appena dichiarato all’Assemblée Nationale che il progetto di riforma sulle pensioni passerà con la forza, senza voto parlamentare, tramite l’applicazione del contestato articolo 49.3 della Costituzione. Le opposizioni insorgono, cantano a più riprese la Marsigliese, l’assemblea è una bolgia. Per l’opinione pubblica è l’ennesimo sfregio di un potere che sceglie l’umiliazione: va bene bambini, la ricreazione è finita. Non sono bastati dunque i cortei con milioni di persone in piazza, i dibattiti infiniti sui media e gli scioperi a ripetizione, tra cui quello dei netturbini, non è bastata l’immondizia che ricopre a tonnellate Parigi e altre città francesi. L’insostenibile tensione degli ultimi mesi raggiunge l’acme. E ora? Non ci sono più parole, rimane solo un numero che fluttua nell’aria, come un cerino pronto a prendere fuoco: 49.3.

La notizia corre, come succedeva una volta e come succede oramai: telefonate, Whatsapp, hashtag. Non c’è neanche bisogno di rifletterci, si fa e basta: tutti a Place de la Concorde. È un movimento spontaneo, non organizzato, non autorizzato. L’ennesimo riflesso di una pulsione che i francesi hanno nel Dna.


Il nemico numero uno (Keystone)

Ai due lati del falò

All’uscita del métro, su rue de Rivoli, trovo dei poliziotti con i mitra. Mi fanno passare. Il gioco delle parti è iniziato. Costeggio il muro che separa le Tuileries dalla piazza, mi dirigo verso la Senna: il pont de la Concorde, da cui si accede all’Assemblée Nationale, è già saturo di camionette della polizia, così come l’altro lato lungo della piazza, che corre verso gli Champs Elysées. I manifestanti sono tutti a ridosso del ponte, puntano il Palazzo del potere. Sono giovanissimi. Cantano, ballano, e intanto guardano negli occhi i poliziotti. Sembra l’haka che precede una partita di rugby, solo che al centro del campo ci sono due metri di fiamme, un falò enorme che separa la linea del bene da quello del male. Un falò di carta, plastica e illusioni, anticipazione del film che vedremo tra qualche ora. Sullo sfondo la Tour Eiffel osserva rassegnata la scena, e intanto il fumo sale verso l’alto, e il cielo sopra Parigi diventa sempre più nero.

Come una lenta marea, regolata da leggi inesorabili, la piazza inizia a riempirsi. L’aria è sospesa, pesante e leggera allo stesso tempo: può succedere tutto, o niente, dipende da come gira il vento. La noia di copioni già scritti è interrotta da slogan, canzoni, ululati, pause e accelerazioni improvvise. Si urla “Resistenza!”, si urlano insulti contro la polizia, frasi irripetibili contro Macron. È qualcosa di commovente, questo furore giovane che si muove come un sol corpo. Le pensioni per loro sono lontanissime, ma i ragazzi sono qui, in piazza, a combattere non solo contro una leadership che pensa di governare a colpi di 49.3 o contro l’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni.


“64? No” (Keystone)

Un’idea di mondo

Sono qui a difendere un’idea di mondo ben precisa, forse incomprensibile dall’esterno, per chi non ha vissuto o ha dimenticato le conquiste della storia: le ferie pagate di Léon Blum, la quinta settimana di vacanze di Mitterand, le 35 ore di lavoro settimanali di Jospin. I ragazzi, questa bella jeunesse de France, sono qui, in piazza, perché sono francesi, perché vogliono vivere una vita fuori dal lavoro, perché sanno che esiste, una vita oltre il lavoro. Sono qui, in piazza, e forse sono gli ultimi rimasti, in tutto l’Occidente, a non rassegnarsi, perché cedere oggi significa cedere domani, cedere sempre.

Portano con sé il carico di ingenuità e la forza che sentono come un’appartenenza, una fede cieca in qualcosa – la rivolta – che i francesi si trasmettono di generazione in generazione. Ognuno ha l’eredità che si merita. Io sono italiano, le loro rivoluzioni le ho conosciute sui libri di storia, i miti hanno presa facile quando sei lontano e provi invidia per chi trova sempre un modo per non farsi piegare. Sono spettatore di una storia che non è la mia, ma lo è eccome. Sono arrivato quando c’era ancora Sarkozy e ora, seduto su un muretto che dà sulla Senna, ascolto con un misto di orgoglio e di imbarazzo il coro “Siamo tutti antifascisti!”, scandito dagli studenti in un quasi perfetto italiano.


La polizia a protezione dell’Assembée Nationale (Keystone)

Instagram e ribellione

Potrei andarmene adesso, scendere le scale verso il lungofiume e uscire dall’inquadratura, come se niente fosse. Invece resto, incantato dalla scena di ragazzi e poliziotti che si contendono un bottino incustodito di transenne e blocchi di cemento. Ma le schermaglie vere sono ancora un’ipotesi, dalle casse parte a tutto volume Freed from desire, l’inno dance anni ’90 che ha accompagnato la marcia della Francia agli ultimi Mondiali di calcio. Si balla, si ride, si beve birra. Il sole tramonta, la Tour Eiffel e l’orizzonte tutto si tingono di un rosa illogico: va bene la rabbia, va bene gli slogan, ma una story su Instagram è quel che ci vuole per ingannare l’attesa.

E quando ormai è sera, e la piazza è piena, con la gente che si muove seguendo traiettorie di spensieratezza, l’atmosfera da Capodanno fuori stagione cambia improvvisamente umore. È un conto alla rovescia che non ha nulla di festivo: gli idranti che sparano acqua per fortuna non ad altezza uomo, le cariche improvvise di poliziotti addestrati esattamente per questo, i manifestanti che provano a dare fuoco ai cantieri incustoditi. Arretro, come tutti, e non ho neanche il tempo di chiedermi se abbia avuto senso venire a manifestare. La risposta arriva un attimo prima. Vogliono sgomberare, costi quel che costi. Ma la piazza è circondata da agenti, sembra non si possa più uscire. Ci si guarda attorno, si cerca complicità, diverse persone sono qui per caso, non gliene frega nulla delle pensioni, cercano di passare con la bicicletta o con il monopattino. Sono fuori posto, fuori luogo, eppure dentro questo momento assurdo di Place de la Concorde satura come una stanza piena di gas.


Le cariche della polizia (Keystone)

Trascorrono minuti lunghissimi, tutto il campionario di rumori confusi, urla, lamenti, risate e spintoni, finché un cordone di poliziotti allenta la presa su Rue Saint-Florentin, una strada stretta che collega rue de Rivoli a rue Saint-Honoré e ai negozi di Chanel, Burberry e compagnia. Migliaia di persone costrette a passare da questo imbuto, una follia. L’inerzia mi porta in avanti, imbocco finalmente Rue Saint-Florentin e qui inizia un altro film. A poco a poco si svelano i contorni di qualcosa che è avvenuto mentre ero indietro. Tutto cambia colore, un seppiato cinereo che filtra le cose e le persone. Un pompiere prova invano a spegnere un incendio con un estintore, e ogni tre o quattro metri ecco un altro fuoco, e un altro ancora. Brucia l’immondizia, bruciano i cassonetti, bruciano le barricate. Brucia Parigi.

L’ora dei manganelli

L’aria diventa irrespirabile, mi proteggo con la sciarpa, ma non basta perché non è solo fumo, ci sono anche i gas lacrimogeni: gli occhi che piangono, il petto che raschia. Continuo a seguire il flusso, facendo zig-zag tra l’idea di ritirata e la concretezza della frustrazione. Volano bottiglie e volano pietre, esplodono petardi. Quasi all’incrocio con rue Saint-Honoré scopro che un altro cordone di poliziotti sbarra la strada. Il panico della trappola dura poco, giusto il tempo delle suppliche di chi sa che basta un niente per far degenerare tutto. Due agenti accennano un movimento di apertura. Mi metto in fila, paziente, riesco a passare in mezzo a loro, ma poi, appena girato l’angolo, ecco un movimento improvviso alla mia sinistra. Una persona, la vedo, vestita come me, come chiunque, cade a terra sotto i colpi di un manganello che ha deciso così.

Tutti scappano come cursori impazziti, partono colpi in ogni direzione, non si capisce più niente. Vengo sbalzato all’indietro e mi ritrovo di schiena sul cofano di una macchina, con un altro ragazzo sdraiato su di me, tra le mie braccia. È una scena senza senso, sento il peso del suo corpo, ma è un istante che dura davvero un istante, perché lui è già scattato come una molla: scappare o combattere, non c’è scelta. Nelle mie orecchie torna il rumore assordante, e il caos, tra poco correrò verso la prima metropolitana e tornerò a casa, e nei prossimi giorni vedrò altri incendi, altre barricate, altri inseguimenti e altre persone arrestate, sentirò altre sirene e altri slogan bellicosi, e poi la legge passerà o forse no, e tutti si dimenticheranno di questa giornata, tanto che vuoi che siano due anni in più di lavoro, ma intanto io riapro gli occhi, sono qui, sono tutto intero, mi rimetto in piedi, guardo i negozi di lusso, guardo la battaglia che infuria e penso: che fatica, questa rivoluzione.


Le barricate nel centro di Parigi (Keystone)