laR+ L’intervista

Si alza forte ‘Il suono della guerra’

Un imponente resoconto di come la musica possa scendere in trincea e il conflitto possa ‘comporre’ musica: con Carlo Piccardi tra le pagine del suo libro

Musicologo, critico musicale, saggista
28 gennaio 2023
|

Si apre con Mozart, La battaglia K 535; s’indietreggia sino a Niccolò Machiavelli; si arriva alla guerra in Ucraina, una volta transitati anche da ‘The Concert for New York City’, tributo ai caduti dell’11 settembre, forse l’ultimo tentativo di creare, in musica, "un fronte di resistenza sotto un vessillo, con parole d’ordine e inni da lanciare contro il nemico".

Copre liberamente questo arco di tempo ‘Il suono della guerra – La rappresentazione musicale dei conflitti armati’ (Il Saggiatore), libro di Carlo Piccardi, musicologo, critico musicale, saggista, per quasi quarant’anni alla Rsi. I suoi scritti hanno impreziosito e impreziosiscono anche le pagine culturali di questa testata. Rassegna critica di come la musica sia stata accompagnatrice, ispiratrice, sostenitrice della guerra, ma pure denuncia della stessa, ‘Il suono della guerra’ – dall’imponente documentazione – è il resoconto di come la musica possa scendere in trincea, e di come la guerra, allo stesso modo, abbia scritto pagine – ahinoi, se si vuole – di grande musica.

Carlo Piccardi: è stato il conflitto in Ucraina a spingerla a scrivere ‘Il suono della guerra’?

No. I fatti che ci hanno portato alla guerra in Ucraina, e la guerra stessa, non c’entrano. Avevo già pubblicato, molti anni fa, un saggio su musica e guerra. Ho ripreso il tema perché nel tempo avevo accumulato ulteriore materiale di ricerca. Il tutto è nato circa due anni e mezzo fa. Nel frattempo, senza alcun calcolo da parte mia, il tema è diventato d’attualità.

Il motivo per cui l’ha scritto?

Ho constatato come vi siano molte ricerche su questo tema, ma sin troppo localizzate in periodi circoscritti. Non ho trovato un libro che ne trattasse l’insieme, l’evoluzione storica. Io parto dal Quattrocento. In ‘Dell’Arte della guerra’, Niccolò Machiavelli parla anche di musica, di trombettieri e tamburini. A partire da qui ho raccolto molte testimonianze sul tema. Ho pensato, all’inizio, che la questione toccasse soprattutto i compositori marginali, per accorgermi poi che il filone della guerra è primario nella storia della musica, perché riguarda i compositori maggiori. Con alcune differenze sostanziali: fino alla Rivoluzione francese, dato il ruolo di servizio nelle corti, il musicista non godeva di alcuna autonomia che potesse portare a una presa di posizione rispetto ai fatti bellici; da lì in poi, al contrario, la guerra passa in primo piano.

Pensiamo alla Marsigliese: vi è un esplicito richiamo alle armi ("Aux armes citoyens"), è il momento in cui il cittadino non è scorporabile dal soldato, il cittadino è anche il soldato, e la guerra diventa fatto permanente e non occasionale. È soprattutto l’Ottocento che vede primeggiare questo tema nelle opere artistiche. È vero, di ciò vi è traccia anche nella chanson polyphonique cinquecentesca, una di esse (di Jannequin) non a caso s’intitola ‘La guerre’, ma si trattava di una guerra rappresentata quasi documentaristicamente, senza alcuna partecipazione.

‘Il suono della guerra’ arriva fino a Bob Dylan: è la Marsigliese, dunque, il primo momento nel quale la musica acquisisce funzione sociale?

La Rivoluzione francese porta il popolo in primo piano e il confronto avviene con il pubblico generico, e questo dà una carica all’artista nel motivare la propria rappresentazione della guerra. Con tutti i problemi di censura annessi. Molte opere venivano comunque tartassate dalla censura stessa, in presenza di allusioni di tipo politico-rivendicativo.

Alla luce del conflitto in corso, qual è il rapporto tra la ‘nostra’ musica, quella più recente, e la guerra?

A parte l’attuale guerra in Ucraina, dall’ultima Guerra mondiale non abbiamo più avuto guerre sul Continente. Nei decenni precedenti, invece, non passavano vent’anni che non ne scoppiasse una. Cittadini e artisti erano confrontati col tema in modo permanente. La guerra oggi ci coglie quindi impreparati, non soltanto musicalmente, ma artisticamente. Questa constatazione mi ha fatto molto riflettere. Mentre a partire dalla Rivoluzione, come dicevo, non vi è un autore che non si sia confrontato con questo tema e che non abbia lasciato una testimonianza.

Molte delle sue pagine sono dedicate alle scene militari nelle opere…

Sì, penso a Rossini, al Guglielmo Tell, ma anche a L’assedio di Corinto ecc... Sono opere nelle quali vi è sempre qualche scena di battaglia, di confronto bellico. In Verdi, addirittura, col Risorgimento alle spalle, non c’è opera nella quale non vi siano scene militari o di sfide. I Lombardi alla prima crociata, in questo senso, è un’opera programmatica che, il Risorgimento, lo doveva sostenere.

Come hanno influito le guerre sugli aspetti artistici?

Il problema principale che si tocca con mano è che la musica, come tutte le arti europee, ha avuto uno sviluppo continentale, non nazionale. Un artista italiano era abituato a confrontarsi con uno francese, tedesco, inglese. Quando interveniva una guerra, interrompeva questi rapporti. Le guerre hanno in qualche modo condizionato anche l’evoluzione artistica. Il fatto di doversi distinguere dal nemico, che prima che scoppiasse una guerra era un amico, creava problemi.

Questa situazione patologica si tocca con mano, con tutti i suoi contraccolpi: in Beethoven, per esempio, che nel 1813 compone a Vienna un pezzo celebrativo della vittoria inglese su Napoleone, La vittoria di Wellington, scritta per il panarmonicon inventato da Johann Nepomuk Mälzel, che fu anche inventore del metronomo. Questo pezzo fu abbinato alla Settima sinfonia, che per noi è un capolavoro, cosa che La vittoria di Wellington non è. Eppure, quando fu eseguito insieme alla Settima, quest’ultima non ebbe alcun effetto, e il successo maggiore lo ebbe proprio questo clamoroso pezzo rumoristico. Noi, a distanza di due secoli, abbiamo rimesso a posto i valori, e La vittoria di Wellington è tornato nella marginalità che merita, al contrario della Settima.

Ha parlato di ‘pezzo rumoristico’: il suono della guerra, portato in musica, è stato anche rumore puro…

Nel libro scrivo de L’arte dei rumori, di Luigi Russolo, futurista italiano, teorico della musica rumoristica. Quel libro nasce mentre Russolo è mobilitato con l’esercito italiano sul Carso; il suo è un testo interessantissimo sui rumori della guerra, che porta all’idea di una musica fatta di soli rumori. La partecipazione emotiva, nel suo caso, è curiosa: Russolo si trova in guerra, in mezzo a spari, cannonate, bombardamenti, ma dai suoi scritti non emerge alcun riferimento alla drammaticità, al sangue, ai morti, al dolore, alla fatica; tutto è concentrato su questa novità del rumore, che lo porta a concepire la prima musica rumoristica, una forma d’avanguardia musicale non basata sul suono strumentale o vocale, ma sul rumore.

In ambiti meno rumoristici, ma nei quali il suono della guerra è preponderante, vorrei citare Šostakóvič. La sua composizione più nota, la Settima sinfonia, si rifà all’attacco all’Unione Sovietica portato dall’esercito nazista; il primo tempo è assai calcato, con quel suono di marcia inflessibile, che avanza, il suono di un’opera-manifesto che ha interpretato la drammaticità vissuta su entrambi i fronti, tanto su quello dei Paesi legati al nazifascimo che quello dei democratici, che hanno poi prevalso.

Per quanto, come diceva, la musica fosse un fatto continentale, per quanto gli artisti ‘volassero’ al di sopra dei conflitti, lei elenca molti casi di autori calatisi in pieno nella conflittualità. Ce ne vuole citare alcuni?

Citerò il caso di Wagner. Nel 1870, allo scoppio della guerra franco-prussiana, Richard Wagner s’impegnò a sostenerla. Lui che aveva tentato il successo a Parigi senza grande esito, non aveva grande simpatia per i francesi; una volta constatata la supremazia dei tedeschi prussiani sulla Francia, scrisse il testo Eine kapitulation, antifrancese in una maniera plateale, compiaciuta con palese insistenza. Questo per dire che quando pensiamo a questi compositori, li vediamo come figure supreme, alte, che stanno così al di sopra dei casi umani da lasciare un segno nella storia, in quanto ‘vette’ della cultura europea. E invece vi sono fenomeni nazionalistici come quello di Wagner, crudele, derisorio. Non siamo più abituati, ma fa parte della storia e lascia un segno.

Per contro. La sconfitta della Francia nel 1870 fu mal digerita da parte di Camille Saint-Saëns, che nei trent’anni successivi meditò una sua rivincita. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, Saint-Saëns fondò in Francia la Ligue nationale pour la défense de la musique française. Lo seguirono in tanti, ma non tutti, come Ravel che, benché contattato, non aderì. Ecco, uno dei principî sostenuti da questa Ligue nationale era di bandire l’esecuzione di musica dei Paesi nemici. Vi sono pure Claude Debussy e la sua deriva nazionalistica, e così Richard Strauss: nel suo caso, il nazismo, messosi di traverso alle arti d’avanguardia, aveva fatto chiudere la sezione tedesca della Società internazionale di musica contemporanea, creando un’associazione alternativa di tipo nazionalistico alla cui presidenza aveva voluto proprio Strauss, prestatosi all’operazione censoria. Durante la guerra, il musicista abitò in Baviera, e alla fine di essa l’esercito americano di occupazione installò il comando proprio nella sua casa di Garmisch; indispettito, Strauss lasciò la Baviera per la Svizzera, terra nella quale pagò le sue scelte con un esilio molto amaro, che lo portò non solo alla fine della propria esistenza, ma a quella di una più generale tradizione culturale.

Per finire: il nostro tentativo di bandire la musica russa, invece? La messa in discussione dell’esecuzione del Boris Godunov alla Scala, per esempio?

È ovvio, oggi è diverso. Ma cosa c’entrerebbe mai Musorgskij, personaggio ottocentesco che nulla ha a che fare con la Russia attuale, men che meno con quella sovietica o ex sovietica? Queste sono forme d’isteria culturale che non hanno un vero fondamento.

Il commento

Tra Šostakovič e Grossman

di Jacopo Scarinci

Il Dmitrij Šostakovič che finì prestissimo col temere l’arresto e l’essere messo al muro alla Lubjanka è lo stesso compositore che, raccontando una guerra e un’invasione, riuscì a descrivere anche la pace. La sua Settima sinfonia – composta nel 1942 dopo aver già più o meno dribblato tutte le accuse e le possibili conseguenze dell’uscire dai canoni del realismo sovietico – è l’inno alla resistenza della Leningrado occupata dai nazisti, il racconto dell’umanità che vince davanti alla distruzione, la speranza che emerge dalle rovine dell’assedio rappresentato dal tema dell’invasione nel Primo movimento.

Quella dedicata a Šostakovič è una delle parti più coinvolgenti del saggio ‘Il suono della guerra’ di Carlo Piccardi, ma Šostakovič e la sua vita accompagnano la lettura di tutto un volume intriso della volontà di raccontare e spiegare il rapporto tra guerra e musica, tra racconto e rappresentazione, anche politica e plastica. Ma è intriso anche, e si percepisce più volte tra le righe, del bisogno di superare la tensione massima per sciogliersi in un abbraccio, un pianto: la tranquillità necessaria. Ed è per questo che la Settima di Šostakovič accompagna la stimolante lettura di Piccardi anche quando si affrontano Guernica o la Prima guerra mondiale, il Rinascimento o la caccia a Bin Laden in Afghanistan. Perché la tensione costante cerca sempre uno sfogo nel suo contrario: il finale celebrante e popolare della Settima inneggia alla stoica resistenza e rende tutta la sofferenza vissuta come finalizzata al respiro che non è solo conferma di vita, ma è lacrima che riga la guancia esaltando la vita che resiste alla distruzione della guerra.

La stessa sensazione che si ha alla fine di ‘Vita e destino’ di Vasilij Grossman. Circa 1’600 pagine e qualche anno dopo Leningrado e il prologo ‘Stalingrado’, respinto l’invasore nazista, precipitati ancor di più nel terrore staliniano, dopo morti, feriti, dolore e persecuzioni due personaggi senza nome che compaiono nelle ultime pagine sono davanti a una casa vuota. Che è sia casa sia mondo, e saluta chi non c’è più. "In quell’assenza di suoni si udivano i gemiti, le lacrime versate per i caduti e la gioia furiosa per la vita… Era ancora buio, faceva freddo, ma tra pochissimo porte e finestre si sarebbero spalancate e quella casa avrebbe ripreso vita, riempiendosi di risa e pianti di bambini, dei passi frettolosi e gentili di una donna e di quelli decisi del padrone di casa. Restarono fermi, senza parlare, con i sacchi per il pane in mano".