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Brasile, Perù, Messico: le ferite aperte dell’America Latina

In Perù ancora morti dopo la destituzione di Castillo; Lula dà dello ‘squilibrato’ a Bolsonaro; i narcos uccidono una magistrata nello Stato di Colima

Il Perù brucia (Keystone)
13 gennaio 2023
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"Adesso l’America è, per il mondo, nient’altro che gli Stati Uniti: noi abitiamo in una sub-America, un’America di seconda classe, difficile da identificare. È l’America Latina, la regione delle vene aperte", scriveva Eduardo Galeano, l’uomo che aveva fatto i conti al colonialismo culturale ed economico che aveva devastato la sua parte di mondo, trasformando i numeri in parole e lo scippo di ogni fortuna in un’orgogliosa rivendicazione di un’anima che non si può rubare né comprare.

Ma le ferite aperte dell’America Latina non smettono mai di sanguinare, e – ciò che è peggio – spesso ormai sono autoinflitte, come sta accadendo in questi giorni in Brasile, Messico e Perù, e da tempo in Colombia, Venezuela e Nicaragua.

Il caso Bolsonaro, sempre in bilico fra tragedia e farsa, ieri è arrivato dalle parti dello "squilibrato", così il presidente eletto Luiz Inácio Lula da Silva ha chiamato il suo predecessore Jair Bolsonaro. Non completamente a torto, visti i sempre più evidenti agganci tra la cerchia più ristretta di Bolsonaro e i rivoltosi.

Insomma, l’assalto ai palazzi del potere di Brasilia è stato premeditato, e sarebbe provata la connivenza di alcuni membri delle forze armate. O almeno questa è l’idea delle autorità che indagano sugli atti di vandalismo commessi domenica scorsa a Brasilia dai bolsonaristi più accaniti. Atti che, per ora, non si sono ripetuti, nonostante le minacce social di alcune frange estremiste. "Sono convinto che la porta del Planalto (la sede del governo, ndr) sia stata aperta per far entrare queste persone, perché non è stata sfondata, qualcuno ha facilitato il loro ingresso", le parole nette di Lula, secondo cui "c’è stata molta gente connivente tra la Polizia militare, tra le forze armate".

La domenica folle di Brasilia (Keystone)

Emergono, intanto, sempre più similitudini con gli attacchi al Congresso Usa del gennaio 2021. E deputati brasiliani e americani stanno valutando una possibile collaborazione tra i parlamenti dei due Paesi per un’inchiesta congiunta. Ormai anche la maggioranza dei brasiliani pare stufa di Bolsonaro e dei suoi modi: in base a un sondaggio di Datafolha, il 55% ritiene che Bolsonaro abbia avuto "un certo grado di responsabilità" nei fatti di domenica, condannati senza appello dal 93% degli intervistati.

Anche il Perù non sembra trovare pace. Da settimane una decina di regioni nel Sud del Paese – e città storiche come Arequipa, Cusco e Puno – sono in fiamme per le proteste popolari antigovernative. La mobilitazione – indetta da movimenti indigeni locali e molto partecipata – ha provocato cortei, blocchi stradali, scontri fra manifestanti e polizia, e un bilancio di ben 48 morti e decine di feriti.

La tensione, che dall’insediamento del presidente progressista Pedro Castillo, il 28 luglio 2021, si era manifestata in termini politici nelle sedi istituzionali e nelle Procure, si è trasformata apertamente in mobilitazione sociale dal 7 dicembre. Quel giorno il parlamento, controllato dal centro-destra, è riuscito a destituire Castillo "per incapacità morale", complice anche una decisione improvvisa, e mai realmente chiarita, del capo dello Stato di tentare di sciogliere l’Assemblea legislativa. A ciò si è aggiunta la Magistratura, che ha disposto una carcerazione preventiva di 18 mesi per Castillo con l’accusa di tentato colpo di Stato: mossa che ha innescato la rivolta popolare.

Per oltre due settimane si sono moltiplicati i blocchi stradali e i cortei che si sono trasformati in scontri. Prima della tregua natalizia, gli incidenti avevano causato 28 morti e decine di feriti in sei regioni del Centro-sud peruviano (Lima, Apurimac, La Libertad, Junin, Arequipa e Ayacucho). A riscaldare gli animi dei manifestanti c’è stato anche il comportamento della presidente Dina Boluarte, ex vice di Castillo, che una volta subentrata al potere ha costituito un governo di centro-destra, alleandosi con la maggioranza conservatrice. E anche il parlamento ha fatto la sua parte per contribuire ad accrescere le rivendicazioni sociali, respingendo la richiesta di elezioni immediate, e limitandosi ad approvare un generico anticipo alla fine del 2024.

Fuoco e fiamme (Keystone)

Con questi presupposti, i movimenti che avevano contribuito alla vittoria presidenziale di Castillo sono tornati in piazza, insieme a gruppi di ‘ronderos’ (guardie contadine) e a membri delle tribù aymara e quechua. Dal 4 gennaio i manifestanti hanno ripreso la protesta e il governo del premier Alberto Otárola ha scelto la linea del confronto duro: ciò ha portato lunedì scorso a una battaglia campale a Juliaca, nella regione di Puno, in cui sono morti 18 manifestanti e un agente di polizia, arso vivo nell’auto cui la folla aveva dato fuoco. Le fiamme sono ancore accese.

In Messico, invece, a pochi giorni dalla cattura di Ovidio Guzman – uno dei boss dei cartelli della droga, figlio del Chapo Guzman –, la violenza dei narcos è tornata a colpire le istituzioni con l’uccisione della magistrata Martha Esther Rodriguez Cerna, capo dell’Unità anti-sequestri della Procura dello Stato di Colima. La donna è rimasta vittima di un agguato da parte di un gruppo di sicari mentre scendeva dalla sua auto a Villa de Alvarez, vicino a Colima. Nel giugno scorso la donna aveva ordinato l’arresto di 17 membri del pericoloso Cartel Jalisco Nueva Generacion (Cjng), considerati responsabili del sequestro di due donne.

Dei 32 Stati messicani, quello di Colima, affacciato sulla costa del Pacifico, è territorialmente uno dei più piccoli. Ma possiede il porto più grande del Paese, Manzanillo: lo scalo marittimo muove oltre tre milioni di container all’anno ed è al centro degli interessi dei principali cartelli narcos che approfittano del suo intenso traffico per lo smercio di droga in tutta la regione. Intanto, nei primi giorni di gennaio, il numero di omicidi è già aumentato del 20% rispetto a un anno fa.

Follia diventata normalità. La vena tappata dell’America Latina.

Proteste anche in Parlamento (Keystone)