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‘Camminare oltre’ insieme ad Andrea Netzer

Dopo la diagnosi di Parkinson il giornalista, musicista, buddista e organizzatore d’eventi si racconta in un libro. Intervista su una vita incredibile

(A.N.)
14 dicembre 2022
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Sono tante vite in una, quelle di Andrea Netzer: giornalista, musicista, buddista, ma anche organizzatore d’eventi ed ex maestro di sci delle teste coronate. Vite che Netzer cuce insieme con «un filo rosso che ho trovato piano piano e un po’ a posteriori» nel suo snello ‘Camminare oltre’, appena pubblicato da Flamingo Edizioni: verrà presentato domani alle 18 alla Libreria Bellinzonese e il 4 gennaio al Bar Cervo, sempre a Bellinzona, in occasione del Mercalibro. Camminare oltre, poi, non è un titolo scelto a caso. C’entra il morbo di Parkinson, diagnosticatogli nel 2019 a soli 62 anni, una di quelle sorprese che avrebbe potuto smontare una persona meno innamorata di tutto, invece per Netzer «è stato uno shock, certo, ma anche l’occasione per rallentare e fare il bilancio della mia vita. Lo stesso che un po’ si trova anche in questo libro».

Tra Filippo e il reverendo Moon

Cominciamo dall’inizio. Nei primi capitoli troviamo Netzer bambino, all’Hotel Suvretta House di St. Moritz. Non perché condivida lignaggio e privilegi degli ospiti di quell’albergo extralusso, ma perché il padre vi lavora come concierge. È lì che il piccolo sognatore, mentre aspetta il suo turno dal parrucchiere dell’albergo, prova la prima infatuazione per una donna: la moglie dello Scià di Persia Reza Pahlavi, «fiera e dolcissima, lievemente malinconica». Sempre lì, qualche anno dopo, in qualità d’aiuto istruttore di sci si trova a salvare dalle piste nere le ginocchia di certi rampolli ricchi e viziati, ma anche a fare amicizia – dopo una battaglia a colpi di patatine fritte – col futuro re Filippo del Belgio: «Quello più alla mano, mi fece capire come quel mondo che mi sembrava fiabesco nascondesse obblighi e frustrazioni».

Per sua stessa ammissione «curioso e un po’ inquieto», ritroviamo poi Netzer che neppure ventenne si risveglia trenta ore dopo una festa della comunità svizzera a Los Angeles. «Non seppi mai cosa mi avevano messo nel cocktail, ma forse è meglio così». Sedotto da una studentessa nicaraguegna incrociata a San Francisco, si reca poi a un’altra festa un po’ strana, dove «lei non c’era, ma in compenso c’erano dei ragazzi che cantavano in maggiore tutta una serie di canzoni stile Country Road, e che a un certo punto mi chiesero: ‘Tu ci credi in Dio’?» Anche lì, non può finire con una semplice stretta di mano: Netzer, «per soddisfare una sorta di curiosità antropologica e d’accordo con un amico appena conosciuto che studiava a Lovanio», parte per una sorta di campo d’addestramento di quella che si rivelerà essere la chiesa dell’Unificazione del reverendo Moon (avete presente il tizio sudcoreano che sposò monsignor Milingo? Quello). «Potei così capire come funzionano le sette, il loro lavaggio del cervello, anche se fortunatamente non vi caddi e compresi subito che dietro c’erano interessi politici ed economici ben lontani dalla spiritualità. Fatalità, anni dopo come giornalista mi sarebbe capitato per caso – o per karma – di lavorare proprio su quel tema, in un certo senso chiudendo un cerchio».

James Brown tra le pentole

Karma e cerchi che si chiudono sono elementi caratteristici dello sguardo di Netzer sull’esistenza, non solo per via della sua successiva adesione al buddismo (ci arriviamo), ma anche perché «mi riesce difficile credere che tutto quel che la vita mi ha riservato – proprio a uno come me che di indole sarebbe piuttosto pigro e pacioso – possa essere avvenuto per caso». Perché nelle centocinquanta pagine scarse di ‘Camminare oltre’ c’è davvero di tutto: il clarinetto iniziato da bimbo – «per allargare la cassa toracica su consiglio dello pneumologo, visto che ero asmatico» – divenuto prima sax tenore, poi chiave d’ingresso nella mitica Pocafera Band; la contestuale organizzazione di eventi e concerti, che dalla prima esperienza autogestita di Lugano – sul finire degli anni Settanta, in quell’ex Ospedale civico futura sede dell’Usi – si sviluppa nell’impegno per la Città e nella creazione di una società tutta sua (se volete scoprire come c’è finito James Brown in mezzo alle pentole dell’ArteCasa, procuratevi il libro). Ciascuna storia è un circolo virtuoso, disegnato da linee lungo le quali moltissimo si crea, ma nulla si distrugge. «La vita mi ha dato occasioni che a pensarci, alle volte, mi meraviglio anch’io», nota Netzer con quel suo tono sempre un po’ divertito, autoironico. «Mi sono sempre cacciato in delle situazioni un po’ strane».

35 anni di radio

Di mestiere, poi, Netzer non ha sempre fatto il giornalista. «Prima ero assistente sociale e mi piaceva molto, anche se trovarsi a ventun anni ad affrontare certi casi così complessi significa anche portarsi un po’ il lavoro a casa. Ma se ho cambiato non è stato per esaurimento o insoddisfazione, piuttosto perché come sempre ha vinto la curiosità di provare qualcosa di diverso». Ovvero il giornalismo, prima per Radio 3i poi alla Rsi, dove è passato come corrispondente dalla redazione di Zurigo a quella di Coira, per non dimenticare gli anni in trasmissioni come Modem. Anni in cui conosce il magistrato italiano Antonio Di Pietro e il Dalai Lama, l’attivista ecologista Bruno Manser e i giovani appena usciti dalla Ddr. «Un lavoro molto arricchente, dal quale ho imparato che rispetto alla realtà si ha un dovere di equidistanza, ma anche che ognuno quella realtà la vive in modo soggettivo. Un lavoro che comunque mi stressava anche un po’, soprattutto negli anni di Zurigo era difficile conciliarlo con la famiglia. Insomma, c’era sempre un po’ di fatica esistenziale».

È per questo che proprio a Zurigo Netzer si avvicina al buddismo Kadampa: «Avevo già conosciuto la psicanalisi e la meditazione zen, ma mi ero sempre avvicinato alle cose con un approccio un po’ intellettuale. Man mano che invece la vita mi presentava il conto, ho capito che dovevo andare più a fondo, vivere queste esperienze in modo più spirituale».

Il fattore P

A scanso di equivoci, lo diciamo subito: Netzer ha tutta l’aria di essere sì un sognatore, ma non uno di quei tizi sconclusionati che inseguono la moda del momento, coi chakra in zona aperitivo e le frasette da baci Perugina. «Le mie esperienze – osserva lui stesso – mi hanno reso diffidente nei confronti dei settarismi e delle facili infatuazioni, insegnandomi anche che non esistono verità e salvezze predefinite. Il buddismo richiede onestà e impegno, e devo dire che se non ci fosse stato un gruppo con il quale svolgere un percorso di studio e meditazione, forse non avrei avuto la forza per seguirlo da solo». Da qui anche la scelta – una volta rientrato in Ticino, «insieme a un maestro laico con la casa in Gambarogno» – di avviare il Centro Menla, presso il quale, seguendo gli insegnamenti di Geshe Kelsang Gyatso, ha anche tradotto diversi testi e funge da coordinatore dei programmi educativi.

Dal buddismo viene pure la consapevolezza del fatto che «puoi cambiare solo certe cose, altre vengono da esperienze e vite passate e devi accettarle, in modo da liberare energia per raggiungere una certa pace mentale», ci spiega Netzer con la tranquillità divertita di chi in ogni caso non vuole apparire sentenzioso. Tanto che quando gli chiediamo come quest’attitudine lo abbia aiutato ad affrontare il Parkinson – quello che nel libro chiama "il fattore P" – ci tiene subito a precisare che «il coraggio lo tiriamo sempre fuori davanti alle difficoltà, mica solo io. Anzi, frequentando i gruppi di autoaiuto ho visto tante persone in condizioni ben peggiori delle mie che vivono la malattia con enorme forza e dignità».

La diagnosi è arrivata poco prima che scoppiasse la pandemia: «Già da qualche tempo vedevo che avevo il braccio sinistro un po’ rigido, che in radio iniziavo ogni tanto a biascicare, a impappinarmi. Cercavo di nascondere i sintomi, vuoi per vergogna, vuoi perché pensavo fossero dovuti all’età. A un certo punto la situazione si è aggravata e mia moglie mi ha spinto a rivolgermi a un neurologo. Quando ho saputo che era Parkinson è stato uno shock, certo, ma in un certo senso anche una liberazione: almeno potevo dare un nome a quei sintomi e iniziare un percorso di terapia, dalla logopedia alla fisio». Rallentando un po’, riflettendo sul passato e affrontando il presente «con l’aiuto di tutti coloro che mi stanno vicini, i miei amici e i miei famigliari», quali la moglie Danika e le figlie Giulia ed Elisa. Ma anche «cercando di ricambiare un po’ di quel che ricevo, di dare un po’ di coraggio e di speranza, per quanto posso e come posso». Per camminare oltre, appunto.