La storia del pugile comasco e del suo rivale Panama Al Brown, protagonisti negli anni 20 e 30 fra Centroamerica, Parigi, New York e Carate Urio
Il 17 novembre di 120 anni fa a Carate Urio – villaggio del Lago di Como alle pendici del Monte Bisbino – nasce Domenico Bernasconi. È un’epoca in cui da quelle zone ancora si emigra con destinazione Francia, America, Uruguay e, da qualche tempo, pure verso Panama, dove sono cominciati i lavori del cantiere del famoso canale che collegherà l’Atlantico al Pacifico. I genitori del pargolo, però, di partire non hanno necessità: posseggono una casa più che dignitosa e due lire le hanno messe via. Quando deciderà di attraversare l’oceano, infatti, Domenico lo farà da uomo già ricco. Ma dovranno passare alcuni anni: per ora il ragazzo se ne sta sulla sua riva facendo muscoli e fiato remando per la locale società di canottaggio.
Proprio a Panama, nella città di Colón, dove il canale si getterà nel Pacifico, quattro mesi prima è venuto al mondo Alfonso Teofilo Brown, figlio di un’antillana – che al bimbo insegnerà il francese – e di un fuoriuscito americano, nato schiavo nel Tennessee e giunto laggiù appunto per lavorare al grandioso scavo. Papà Horace però muore presto, lasciando in eredità all’orfano tredicenne soltanto la nazionalità a stelle e strisce, che gli permetterà di entrare giovanissimo nelle forze navali ausiliarie Usa. Intanto Alfonso diviene un bravo pugile e si fa notare dai molti dirigenti, politici e militari americani che in quegli anni abbondano nel Paese e che gli organizzano i primi incontri. Nel 1922, a 20 anni, è già campione di Panama e l’anno seguente emigra a New York, dove si afferma rapidamente: la rivista The Ring nel 1924 lo inserisce al terzo posto mondiale nella classifica dei pesi mosca e nel 1926, messi su un paio di chili, in sesta posizione nella graduatoria dei gallo.
Sul Lario, intanto, anche Domenico Bernasconi si è infilato i guantoni con un certo successo, tanto che ventiduenne se ne va a Parigi per rappresentare l’Italia ai Giochi. Rientrato in Lombardia, passa professionista laureandosi presto campione italiano, per coincidenza pure lui dei pesi gallo. Punta naturalmente alla corona europea, ma purtroppo fallisce due volte l’assalto, sconfitto sempre ai punti ed entrambe le volte dal belga Scillie. Quest’ultimo, però, a un certo punto rinuncia al titolo e Bernasconi – che ormai tutti chiamano Pasqualino perché è solito suonare gli avversari come si fa con le campane a Pasqua – è proclamato campione d’ufficio e costretto in tempi brevi a difendere la cintura. Lo farà – vincendo – nel marzo del ’29 contro Petit-Bouquet, un altro belga.
Nel frattempo nella Grande Mela anche Alfonso – che ormai porta il nome di battaglia di Panama Al Brown – brucia le tappe, sale sul ring praticamente una volta al mese per quasi due anni e nel 1926 combatte per la prima volta al Madison Square Garden, un’investitura e un sogno che si realizza: supera Teddy Silva per ko al terzo round e diventa una presenza fissa sulle locandine delle riunioni più prestigiose. È un pugile che piace, si muove bene, non si risparmia mai ed è dotato di un allungo impressionante: le sue braccia, lasciate cadere lungo i fianchi, scendono davvero fino a sfiorare le ginocchia, caratteristica che gli permette di lavorare gli avversari senza doversi avvicinare eccessivamente e che, di conseguenza, gli evita di prendere troppi pugni. Il grande interesse attorno a questo atleta, ad ogni modo, ha pure altre ragioni: a lui infatti piacciono gli uomini e non si preoccupa di nasconderlo. Un coraggio che spesso paga caro: gli costa infatti insulti, sputi e violente aggressioni da parte del pubblico, oltre a odio, minacce di morte, verdetti vergognosi e squalifiche ingiustificate. Se da una parte New York gli ha dato notorietà e denaro, dall’altra gli rende la vita difficile. Sono anni in cui l’America fatica a sopportare un nero, figuriamoci un nero gay. E così, alla fine del 1926, decide di emigrare a Parigi, all’epoca molto tollerante verso i diversi di ogni tipo. Inoltre, come detto, il ragazzo già parla francese e dunque si ambienta in fretta. Nella Ville Lumière dei ruggenti anni 20 e della Génération perdue, Alfonso combatte dieci volte nel giro di tredici mesi, uscendo sconfitto in una sola occasione, guarda caso contro Scillie, già giustiziere di Bernasconi. La città impazzisce per questo pugile nero e spettacolare, e alla Salle Wagram, al Cirque de Paris e al Vel d’Hiv – dove spesso ad applaudirlo ci sono Ernest Hemingway e Scott Fitzgerald – quando si esibisce lui non si trova un seggiolino libero. Poi, allettato dagli ingaggi americani e dalla prospettiva di dare l’assalto al Mondiale, fa ritorno negli Stati Uniti, ma Parigi gli è rimasta nel cuore e vi tornerà di frequente a combattere, attraversando l’Atlantico ogni volta a bordo di cabine sempre più lussuose.
È nel marzo del 1929 che i destini di Al e Pasqualino si incrociano per la prima volta, e accade a Madrid, al Fronton Jai-Alai. Attorno al match c’è grande attesa, specie in Italia, dove Bernasconi, campione europeo, è divenuto simbolo e strumento del regime fascista, che sfrutta a fini politici i successi sportivi. Per Panama Al, che come detto punta alla cintura iridata, quello contro il comasco è senz’altro un test di tutto rispetto. Pasqualino inizia meglio e riesce a spedire al tappeto l’avversario, ma il panameño si riprende e finisce per imporsi ai punti dopo 10 riprese, con un verdetto che suscita malcontento a bordo-ring. Il lariano si consola confermandosi un paio di volte campione continentale, mentre Al Brown, quasi contemporaneamente, diventa finalmente campione del mondo sconfiggendo ai punti al Queensboro Stadium di New York il maiorchino Gregorio Vidal. Nessun latinoamericano, fino a quel giorno, aveva mai conquistato un titolo mondiale. La sua fama esplode e le sue borse si fanno sempre più ricche. Fra chi prova a strappargli la corona c’è naturalmente Pasqualino Bernasconi, che nel luglio 1930 sbarca a Manhattan per prendersi rivincita e cintura all’Ebbets Field, tempio del baseball e casa dei Brooklyn Dodgers. Come a Madrid, l’italiano riesce dapprima a stendere il rivale, ma di nuovo questi si rialza e, sempre ai punti, viene confermato campione.
Trasferitosi di nuovo a Parigi, Panama Al pur continuando a boxare si dà alla bella vita: frequenta teatri e night club così spesso che finisce per farsi ingaggiare dai maggiori impresari di Pigalle e dintorni. Abilissimo ballerino, danzerà il tip-tap nientemeno che nella Revue Nègre di Josephine Baker e diverrà poi cantante e cabarettista di successo. I soldi gli piovono addosso e lui ne usa buona parte per acquistare diverse Packhard e altrettante Bugatti, a bordo delle quali sfreccia per le notturne strade della capitale. Il ring, però, non l’ha dimenticato, e nel marzo del 1933 concede una nuova rivincita a Bernasconi, che reputa uno dei migliori e più corretti rivali che abbia mai affrontato. La terza sfida è quella che, davvero, passerà agli annali: alla Fiera di Milano, Brown pare in difficoltà già dai primi minuti e riesce a fermare la furia di Pasqualino soltanto ‘legandolo’ in continuazione e venendo di conseguenza più volte richiamato dall’arbitro. Finché, alla quarta ripresa, colpisce il comasco sotto la cintura e viene squalificato: Bernasconi è dunque il primo pugile italiano a laurearsi campione del mondo. Ma la gioia dura solo due minuti, perché il manager del panameño si mette a negoziare – in inglese – con l’arbitro. Fra i commissari c’è l’italiano Mazzia, che della conversazione non capisce nulla e si limita ad annuire. E così, per la prima e forse unica volta nella storia della boxe, lo sconfitto viene riammesso a combattere e il match ricomincia. A trionfare, per l’ennesima volta e di nuovo ai punti, sarà Panama Brown. Qualcuno sostiene che a voler far riprendere l’incontro fu lo stesso commissario italiano: si dice che i fascisti non avrebbero mai accettato di diventare campioni del mondo per squalifica dell’avversario – e non per merito – ma propendiamo più per la prima versione. Comunque sia andata, a Bernasconi resterà per sempre il rammarico per quella corona soltanto sfiorata per un paio di minuti.
Bernasconi – lasciata la boxe nel 1935 senza mai aver perso per ko – nella Seconda guerra mondiale venne fatto prigioniero dagli inglesi e mandato in un campo di concentramento in Rhodesia, dove lavorò molti mesi come istruttore di pugilato. Liberato e congedato, sposò una ragazza americana – ballerina di Broadway – che aveva conosciuto anni prima, in occasione di una delle sue trasferte Oltreoceano. Dal suocero, Pasqualino ereditò un drugstore con annessa macelleria a Coney Island, e lo gestì poi per molti anni. Finché, un giorno, gli venne nostalgia del suo lago e decise di tornare a Carate Urio, dove si spense 76enne nel 1978. Molto meno visse invece Panama Al Brown, che in carriera combatté la bellezza di 163 incontri. Fiaccato da pugni, alcol, droghe varie e sifilide, morì senza un soldo nel 1951 a 49 anni. Ad occuparsi di lui, per molti anni, era stato il romanziere Jean Cocteau, con cui ebbe una lunga e tormentata storia d’amore. Al suo funerale, a New York, era presente soltanto il generoso ‘laghee’ Domenico Bernasconi, detto Pasqualino.