Con la sua squadra, la nuova presidente del Consiglio deve governare quel che definisce ‘il periodo più difficile della storia d’Italia’
Visto che Giorgia Meloni non transige sulla definizione maschile del suo ruolo, tanto vale denominarla il "neo-Sisifo" italiano, dal nome del personaggio della mitologia greca che, per aver ingannato Zeus, fu condannato per l’eternità a spingere un masso fino alla sommità di un monte dal quale questo rotolava inesorabilmente a valle, costringendolo a ricominciare da capo l’impresa.
Con il fido cognato Lollobrigida, quel pericoloso perditempo di Salvini, il neoresponsabile della Transizione ecologica Pichetto Fratin che senza le benevole imbeccate del suo predecessore, Roberto Cingolani, vaga per i corridoi con lo sguardo perso nel vuoto, ebbene con questa ciurma Meloni ha proclamato di recente che "ci tocca governare nel periodo più difficile della storia d’Italia". Ovvero di un Paese che, dopo l’unità proclamata nel 1861, ha combattuto due guerre mondiali, ha vissuto la drammatica presa del potere da parte del fascismo, è stato lacerato da una guerra civile, dalla lotta al terrorismo e dalle stragi di mafia. Senza dimenticare le migliaia di vittime provocate da terremoti, catastrofiche esondazioni di laghi artificiali e altre disgrazie che un più attento rispetto del territorio avrebbe potuto risparmiare agli italiani.
Dunque, sarà mica per il caro-bollette, per dei conti pubblici che è una vita che vanno a ramengo, per la questione del tetto ai contanti, per il rave party di Modena e per l’afflusso di migranti su cui vigila l’occhio attento del Ministro Piantedosi, insediatosi al Viminale dove si presume lasci entrare dalla porta di servizio il suo capo Salvini, travestito una volta da usciere quell’altra da rider, che Giorgia Meloni deve sentirsi sull’orlo di un precipizio mai visto dal suo Paese.
D’altronde, da Mario Monti in su passando per i vari Letta, Renzi, Gentiloni, Conte uno e Conte due fino a Draghi, la musica da ormai oltre un decennio, per la penisola, è sempre la stessa. Certo, nessuno di loro è stato tirato su amorevolmente da un Gianfranco Fini, riabilitato di recente e in modo frettoloso da una stampa un po’ codina, nonostante un’uscita di scena condita da accuse di riciclaggio con un boss del gioco d’azzardo e di appropriazione indebita della "casa di Montecarlo". Fini però, come neppure Ignazio La Russa con la sua collezione di busti del Duce, riesce a spiegare l’incredibile successo politico del Sisifo della Garbatella.
Le cui radici, anche se probabilmente lei stessa ne è inconsapevole, affondano negli inizi del secolo scorso, con Filippo Tommaso Marinetti e la nascita del Futurismo. Di cui, inizialmente, quel gaglioffo di Mussolini si impadronì – nella sua versione rivoluzionaria, anticlericale e anti-monarchica – per poi abbandonarlo una volta ricevuto l’incarico di capo del Governo da un Savoia e sottoscrivendo il Concordato con il Vaticano. "Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?", si chiedeva Paul Gauguin dal suo esilio polinesiano. Sarebbe il caso che il medesimo interrogativo se lo ponesse anche Giorgia Meloni. Sicuramente viene da lontano, per andare dove non lo si è ancora capito. Speriamo non a sbattere come il suo più illustre predecessore. Da cui continua a prendere le distanze, nonostante una contiguità ideologica difficile da negare.