I fiori a Liliana Segre, le parole concilianti con un tocco di Pertini, eppure il discorso da pompiere del presidente del Senato italiano lascia perplessi
Ignazio La Russa è la dimostrazione che in Italia si può nascere incendiari e morire incendiari. Che ci vuole? Basta travestirsi da pompieri. Anzi, da presidente del Senato, magari con un bel mazzo di rose in mano e un mare di parole dolci dal retrogusto amaro. Così si è presentato La Russa, fascista mai pentito e orgoglioso collezionista di busti di Mussolini, al cospetto di Liliana Segre, superstite dell’Olocausto e testimone degli orrori della Shoah.
Per fare incontrare questi due mondi così lontani eppure storicamente indissolubili sullo scranno della seconda carica più alta della Repubblica italiana c’è voluta una di quelle sceneggiature diaboliche, dettata in parte dalle regole, in parte dal caso e molto dal voto degli italiani, che ha consegnato il governo del Paese – e quindi anche il Senato – alla destra. Da lì la candidatura di Ignazio La Russa da parte di Giorgia Meloni nel giorno in cui a presiedere la seduta ci sarebbe stata proprio Segre, in quanto membro più anziano del Senato (sarebbe Giorgio Napolitano, ma è malato).
Lei ha ricordato l’orrore fascista e la Marcia su Roma – il cui centennale cade, beffardamente, fra due settimane –, lui ha fatto quel che fa da una vita: evoca, provoca, mette insieme vittime degli Anni di piombo tirando una riga su tutto, indistintamente, lasciando intendere che tutte le morti alla fine sono uguali, sempre e comunque, e che niente è perdonato, ma tutto è perdonato. Quella voce, inconfondibile, da caratterista di quei film che non si fanno più, è perfetta per intonare il "volemose bene". Ha citato Sandro Pertini, uno che i fascisti li ha combattuti, con la leggerezza di un Toto Cutugno, è passato sopra anni disperati con il colpo di spugna di un barista annoiato. E davanti alle date sciorinate da Segre, il 25 aprile (Liberazione), il 1° maggio (Festa del Lavoro) e il 2 giugno (Festa della Repubblica), non si è proprio accodato, ma parole sue, non è "fuggito", rilanciando con un’altra data che sembra un manifesto programmatico: il 17 marzo, giorno della proclamazione del Regno d’Italia. Una data storicamente importante per il Paese, per carità, eppure politicamente, epidermicamente più vicina a una parte, la sua.
Giovane comiziante in ‘Sbatti il mostro in prima pagina’ (YouTube)
In questi giorni, su internet, stanno rimbalzando le immagini iniziali di uno di quei film di una volta, "Sbatti il mostro in prima pagina". C’è un comizio di neofascisti, e sul palco un giovane La Russa che usa il linguaggio di un’altra epoca. Accanto a lui i tricolori dei camerati con il simbolo dei Savoia nel mezzo: la bandiera del Regno, un passato legato a doppio filo col fascismo, che andrebbe studiato, collocato nel suo tempo e poi riposto nei libri di storia, non resuscitato dentro a un programma politico. Eppure.
La Russa sa di poterselo permettere, perché ormai siamo abituati alla sua immagine: è il fascista della porta accanto, quello che ti tiene aperto l’ascensore quando hai le borse della spesa, che disquisisce al bar di un gol in fuorigioco. Lo stesso che poi minimizza nefandezze, come il saluto fascista del fratello, pizzicato a un funerale, paragonato in tv all’errore di un portiere dell’Inter.
Finito in un film d’autore, sembra più a suo agio in qualche Natale dei Vanzina, quelli che rappresentano pezzi d’Italia all’ingrosso, nel suo caso quello che non si è mai staccato dal Duce. E che, nel giorno del riscatto personale, ha mischiato un po’ le carte senza ritrattare il proprio passato. D’altronde non ne aveva bisogno: è diventato presidente del Senato per quello e non nonostante quello.
Con la mascherina tricolore (Keystone)