Commento

Alla ‘Regione’ la notte in cui morì Michael Jackson

In questi primi trent’anni di vita del giornale ci siamo occupati – sviscerandoli – di fatti grandi e piccoli. Una scuola di metodo

14 settembre 2022
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Quando quella giovane collega era di turno la sera per la chiusura del giornale, con il compito di intervenire sulle pagine per fare spazio alle eventuali notizie dell’ultima ora, spesso fuori della redazione accadeva di tutto e di più. Come in una sera di tredici anni fa. Mancava poco all’avvio della rotativa, allorché arrivarono i dispacci d’agenzia che riferivano del ricovero di Michael Jackson a causa di un malore. Era il 25 giugno 2009. Un giovedì. Il quadro clinico della rockstar andava peggiorando. Rapido rientro alla ‘Regione’ di alcuni colleghi, già al bar o sotto le coperte. Fu una lotta contro il tempo: i minuti passavano e si doveva andare in stampa. Adrenalina alle stelle. Nuova foliazione. Facemmo più ribattute, quattro se ricordo bene. L’ultima con l’annuncio della morte di Jackson. Una pagina intera dedicata al re del pop. Tanta fatica. Soprattutto tanta soddisfazione. Per aver offerto la mattina seguente ai lettori un ritratto a tutto campo dell’artista scomparso. E, detto con quella sana dose di cinismo che deve guidare il mestiere di cronista anche quando di mezzo c’è un evento tragico, per aver fatto assai meglio della concorrenza. Fu insomma il risultato di un perfetto lavoro di squadra.

E il lavoro di squadra è stato in questi primi trent’anni di esistenza della ‘Regione’ uno dei punti forti della nostra/vostra testata. Con resoconti, interviste, inchieste e commenti ci siamo occupati, sviscerandoli, di fatti piccoli e grandi. Di grossi dossier che hanno caratterizzato la realtà politico-istituzionale ticinese. Rifiuti (vicenda Thermoselect), caso Granville, Ticinogate, Fiscogate, Asfaltopoli, Argo 1, i pasticci procedurali del Consiglio della magistratura nel rinnovo delle cariche di cinque procuratori. L’elenco non è certo esaustivo.

Quando mi chiedono quale sia la nostra linea editoriale, rispondo: "Il giornalismo". E così ogni mattina indossiamo, per usare l’efficace metafora di un collaudato collega, elmetto e giubbotto antiproiettile. Per andare a caccia di notizie. Per infilarci anche nelle mutande del potere, cercando di essere gli occhi e le orecchie dei cittadini, che vogliono sapere come viene gestito lo Stato e amministrato il denaro pubblico.

Il lavoro di squadra presuppone però l’acquisizione di un metodo. Ecco, ‘laRegione’ è stata, ed è, anche una scuola di metodo. D’altronde se non si è in grado di agguantare le notizie, si finisce per scrivere sull’acqua. Le scuole di giornalismo insegnano i massimi sistemi (utilissimi), ma il metodo lo si apprende nelle redazioni, lavorando a contatto con i ‘vecchi’ della professione. Metodo è saper, fra le altre cose, raccogliere informazioni, dotarsi di una nutrita agenda telefonica, leggere un comunicato stampa per individuare la notizia (non di rado nelle ultime righe). Ma è anche saper parlare per carpire importanti dettagli di un fatto. Ricordo allora un praticante alle prese con un grave incidente: una persona precipitata dal balcone di un albergo. Telefonò all’hotel. Rispose una cameriera. Timido, le pose, balbettando, qualche domanda incomprensibile. Lo raggiunse come un fulmine il caporedattore: "Ragazzo mio, se ti esprimi così, i tuoi interlocutori chiudono subito la telefonata perché pensano di aver a che fare con un pazzo o un burlone". Il praticante richiamò l’albergo e scrisse sulla ‘Regione’ un articolo giornalisticamente da incorniciare.