L’addio del Direttore artistico e amministrativo: ‘Pare una decisione anticipata o troppo affrettata, ma non lo è’. Le motivazioni
Resterà in carica fino al 30 settembre prossimo, "per poi concentrarsi sulla propria attività in Argovia, dove risiede tra l’altro il centro dei suoi interessi personali e familiari". Prima dei ringraziamenti ufficiali "per l’ottimo lavoro svolto" e gli auguri di futuri successi professionali, così l’Orchestra della Svizzera italiana, per voce della sua Fondazione (Fosi), si congeda da Christian Weidmann, dopo che lo stesso, nella seduta dello scorso 8 giugno, ha deciso di dimettersi dal ruolo di Direttore artistico-amministrativo dell’Osi, a nemmeno due anni dalla sua entrata ‘in servizio’. La storia di Weidmann a Lugano era iniziata il primo agosto del 2020 per infilarsi in uno dei periodi più complessi della storia dell’Osi, per l’ondata pandemica che ne ha messo a rischio il futuro sia dal punto di vista artistico che finanziario. Nel riassumerne l’operato, la Fosi parla comunque di un periodo pandemico "sfruttato al meglio" in chiave di sviluppo successivo, cita i nuovi formati introdotti – il progetto creativo ‘Tracce’, gli open-air – e quella ‘scommessa’ (vinta) chiamata ‘Presenza’ che ha appena visto protagonista Sol Gabetta. "Il Direttore Weidmann ritiene pertanto – si legge ancora nel comunicato ufficiale – che il momento sia propizio per un cambiamento ai vertici della Fosi, per permettere all’Orchestra di proseguire il suo percorso di crescita post-pandemico con un nuovo capitolo".
Christian Weidmann, due anni possono considerarsi un tempo assai breve: cosa l’ha portata a lasciare?
Sì, due anni sono un tempo breve, lo riconosco. Due anni di cui uno è coinciso con il lockdown, un tempo molto particolare, ma non si può dire che ci siamo fermati. Ci siamo organizzati per reagire alla situazione pandemica, lavorando comunque anche sul futuro. Si è inevitabilmente perso del tempo, perché progredire era assai difficile, ma la mia sensazione è che in questi due anni abbiamo concluso una fase di transizione nella storia dell’Osi, arrivata a me dopo Denise Fedeli. Una transizione caratterizzata da profondi cambiamenti, dallo staccarsi dalle strutture del passato. Sento che l’orchestra è adesso consolidata nella nuova era, anche dopo il Covid-19. In questo momento, mentre ci troviamo a buon punto con il contratto con la Rsi, abbiamo davanti a noi un momento di relativa calma per capire come prepararci ai grandi progetti futuri.
Perché non lei, dunque, a ‘completare l’opera’?
Le visioni artistiche, le strategie per il futuro non sono concetti pianificabili in un tempo di due anni. Ne servono almeno cinque o addirittura sette. Quando nel 2020 sono arrivato qui, ho pensato che cinque anni sarebbero bastati; ora, dopo la pandemia, il calcolo ricomincia da zero e se io non ho la sensazione di poter dare il 100 per cento – e il mio lavoro non si può fare al 98 – è bene che prenda una decisione con un certo anticipo. Non volevo iniziare la nuova fase, così ricca di processi importanti, lasciando le cose a metà. All’Osi serve ora una persona con un chiaro profilo che possa sposare gli obiettivi futuri, perché il futuro è ora più chiaro di due anni fa, e senza Covid forse non sarebbe stato così chiaro. La mia decisione, presa tenendo conto della mia vita familiare, parrebbe un po’ anticipata o presa in modo affrettato ma non lo è, perché i processi a volte si sovrappongono anche se non lo vogliamo, e per me sarebbe sbagliato ritrovarmi a dover ‘staccare’ proprio nel mezzo di uno di essi.
Sue parole del 2020 a questo giornale, nei giorni dell’insediamento: "Per me è un mondo nuovo, da scoprire". Quale mondo ha conosciuto?
Un mondo fantastico, un’orchestra di qualità, nell’insieme e con i suoi singoli personaggi. Ho trovato una grande famiglia che lavora unita, guidata da una visione artistica chiarissima. Ho sempre pensato e continuo a pensare che l’Osi sia una delle migliori orchestre di tutta la Svizzera, se non la migliore, per come esegue con la stessa intensità tanto concerti come quello di Vienna, che io considero un picco, che quelli al Lac. È qualcosa che sapevo, perché è stato anche il fascino della sua qualità a portarmi qui. L’Osi non è un orchestra qualsiasi. È vero che il suo centro è Lugano, ma è l’Orchestra della Svizzera italiana. Da grigionese, un po’ argoviese, conosco le dinamiche dei cantoni che non hanno un centro preciso ed è una bellissima esperienza che va a braccetto con il mio carattere. E l’Osi è sì l’internazionalità ma anche l’identificazione con il proprio territorio, e le collaborazioni con partner così numerosi sono estremamente interessanti.
La sua doppia funzione, artistica e amministrativa, ha influito sulla sua decisione?
No, perché il carico di lavoro con un ruolo soltanto non cambierebbe. Il doppio ruolo ha il vantaggio di rendere chiaro, soprattutto in situazioni non sempre chiare, chi prende le decisioni, pur in armonia con la direzione o con altri membri dello staff. Il doppio ruolo ha senso; certamente esistono alternative e sarà il Consiglio di Fondazione a decidere come proseguire. Se fossi stato soltanto direttore artistico, le cose non sarebbero state diverse. Come dicevo prima, parlando di percentuali d’impegno, per fare questo lavoro si è sempre al limite, e se non si è al limite le cose non vanno avanti.
Il comunicato stampa cita i passi fatti dall’Osi sotto la sua direzione: si sente soddisfatto del lavoro fatto?
Ho la grande soddisfazione di aver potuto vivere un’esperienza enorme e in gran parte umana, perché ho dovuto conoscere da un giorno all’altro una cinquantina di persone, i musicisti, lo staff, persone con le quali si lavora fianco a fianco. Sono entrato in contatto con tutto un ambito nuovo e con meccanismi che in Ticino sono diversi dagli altri cantoni. Siamo svizzeri ma la Svizzera è così diversa, non soltanto per la lingua. Sentire la ‘mia’ orchestra a Vienna, a Basilea o al Lac è un regalo che mi è stato fatto. Sono le esperienze umane, nel mio caso, che mi hanno fatto crescere. E le esperienze, per via del Covid, erano più intense, più problematiche, tutte situazioni che in inglese si dicono ‘priceless’ (senza prezzo, ndr), e che insegnano tanto.
Un momento che porterà con sé?
Posso indicare due picchi: il concerto a Vienna, ma soltanto come simbolo della qualità che si può vivere ogni volta anche al Lac e, dopo due anni di preparazione, ‘Presenza’ con Sol Gabetta, nell’incognita dell’esperimento, del come sarebbe stato, due concerti rischiosi per i quali non potevamo prevedere la reazione del pubblico. ‘Presenza’ è anch’esso un picco perché riunisce più aspetti, il solista di fama mondiale, l’orchestra e il suo direttore e, non di meno, la sala.