La strage razzista di Buffalo è l’ennesimo, tragico sintomo di un Paese diviso, le cui fratture interne sono speculari alla potenza militare
Messa in ombra dal fascio di luce proiettato ininterrottamente sul proscenio della guerra di Putin, la micidiale mattanza di Buffalo, NY, conferma quanto il vero pericolo per la democrazia americana sia da anni endemico. Non vi sono dubbi sulla matrice della strage perpetrata sabato scorso in un supermercato di quella città da Payton Gendron: il diciottenne ha cercato di ammazzare il maggior numero possibile di afroamericani nel folle tentativo di opporsi a quella sostituzione etnica teorizzata (anche in Europa) dai complottisti del suprematismo bianco. Certo è più facile pronunciare "terrorismo islamico" che non "terrorismo di estrema destra", eppure quest’ultimo da anni colpisce ben di più e con agghiacciante regolarità. Fino a sfiorare, alimentato dal trumpismo alla deriva, la messa a segno di un golpe a Capitol Hill.
Quella dei morti ammazzati è ormai una scia infinita, una lunga litania, sintomo del degrado e della malattia di un’intera società sempre più intollerante e polarizzata. Il tema del declino americano che preannuncia un tramonto prossimo venturo ricorre ormai da tempo immemore: Noam Chomsky ne aveva individuata la genesi con la vittoria di Mao in Cina all’indomani della Seconda guerra mondiale. Altri accademici ne situano l’inizio in epoca più recente, la disfatta in Vietnam, l’emergenza economica della Cina, l’invasione dell’Iraq nel 2003, il rovinoso fallimento della Lehman Brothers nel 2008 e la successiva nascita di un ordine multipolare (Cina, Europa, India, Russia) di fronte al quale l’America aveva ormai qualche difficoltà a presentarsi come la "nazione indispensabile" secondo il concetto forgiato dall’allora segretaria di Stato Madeleine Albright.
La decadenza è stata letta nel quadro degli equilibri internazionali dove tuttavia i tre pilastri, il primato della moneta nazionale (dollaro), il dominio militare, la forza del mercato interno, pur indebolitisi mantengono una solidità tuttora ineguagliata. Le radici più profonde del declino statunitense sono in realtà domestiche. L’analisi che propone Francis Fukuyama nel settimanale ‘The Economist’ è più che convincente. Il Paese – scrive il celebre politologo di Stanford – rimarrà una grande potenza negli anni a venire, ma la sua influenza dipenderà dall’abilità di affrontare i problemi interni. Questioni come le tasse, l’aborto, il crescente violento tribalismo politico, la questione razziale, le disuguaglianze spaccano la società in schieramenti che non riescono neppure a dialogare. Un recente sondaggio indica che il 31% degli americani è convinto che ci sarà presto una guerra civile.
Usa a rischio implosione? La cultura ha da tempo fotografato lo sfilacciamento sociale, dal degrado dell’area industriale del Michigan nella pellicola ‘Roger and me’ di Michael Moore (1989) a ‘Il declino dell’impero Whiting’ (2001), romanzo nel quale Richard Russo ci porta nei paesaggi costellati di fabbriche abbandonate come rovine di un immenso Luna Park in un Maine vittima della delocalizzazione industriale, al recente ‘Nomadland’ (2021), film in cui la protagonista cerca di tenere insieme, in un desolato Nevada, il puzzle smembrato della propria esistenza. Morti per overdose e tassi di suicidio in crescita così come la violenza endemica. L’America non si ritrova più nel suo motto "e pluribus unum" (dai molti, uno): speculare a quella della sua potenza militare, l’immagine di una società frammentata, malferma, di un’identità sofferente.