Intervista alla traduttrice ticinese, vincitrice di uno dei Premi svizzeri di letteratura
Un ambito ammantato di fascino, quello della traduzione letteraria, che si impone sempre di più nel mondo culturale. Basti pensare ai festival, le formazioni, i concorsi a lei dedicati, i premi, che con gli anni non fanno che aumentare, qui e altrove. È creazione, scrittura, riscrittura, interpretazione. A volte un’unione osmotica tra due menti, quella dell’autore di partenza e del traduttore, spesso un insieme di piccole, grandi, incalzanti sfide tra lingua e significato, frequentemente un viaggio in un Paese straniero da riproporre con linguaggio locale.
Cosa significa realmente essere traduttori oggi? Quali sono le sfide, le soddisfazioni, le occasioni che questo mestiere offre e a volte impone? Lo abbiamo chiesto a Maurizia Balmelli, insignita quest’anno del Premio speciale di traduzione da parte dell’Ufficio federale della cultura e tra le più grandi traduttrici dal francese e dall’inglese in Italia.
Siamo partite dalla notizia dell’uscita dei due romanzi di Cormac McCarthy (‘The Passenger’ e ‘Stella Maris’, previsti per il 2023 con Einaudi), nella quale la traduttrice si era appena tuffata, sullo sfondo di una Parigi sul finir del pomeriggio – dove vive. Un lavoro iniziato da qualche ora appena e del quale ci fa già generosamente parte, raccontandoci dubbi e blocchi del suo mestiere.
L’occasione dell’intervista è però quella dell’onorificenza appena ricevuta, il Premio speciale di traduzione: «A sorpresa! Credevo mi chiamassero per una traduzione, e invece… È stato particolare ricevere questo riconoscimento svizzero, perché in fondo tutta la mia carriera professionale si svolge su più esteri. In Italia, per la quale produco, e nei vari Paesi di provenienza delle opere che traduco. Particolare perché con questo premio ho sentito di non essere stata dimenticata dal mio Paese (dove comunque Balmelli ha tradotto per Casagrande, ndr). E ci vedo anche dell’allegoria in questo: parliamo di traduzione, e anche per il premio non si tratta del luogo diretto con il quale ho a che fare quotidianamente, ma di un altro».
Certo è, che essere colei che ha fatto conoscere al mondo italofono le opere di Martin Amis, Ian McEwan, Le Clézio, e Agota Kristof, tra gli altri, si porta appresso una certa dose di responsabilità…
«La prima traduzione è stata Fred Vargas, che è arrivata in Italia attraverso le mie parole! Avevo dei momenti di blocco in cui pensavo: queste parole verranno lette da migliaia di persone! Dovevo concentrarmi per dimenticare il mio futuro lettorato. Va detto anche che in realtà questo lavoro sulla carta sembra impossibile. Il gesto della traduzione è un’acrobazia ogni volta, che sia più o meno visibile. Non si tratta di un’equazione matematica, necessita di un virtuosismo per ogni opera. Se tu ti guardi fare è molto facile arrivare a un blocco in cui ti dici: no, non lo posso fare, non esiste in italiano, non lo posso tradurre, non è riproducibile e via dicendo. Se ti fermi davanti alle singole difficoltà sono sempre microsconfitte, devi fare di necessità virtù. Come ora, c’è questa parola nella prima frase del libro di McCarthy, è impossibile da tradurre in maniera che dia la stessa sensazione…».
E mentre Maurizia Balmelli mi racconta i diversi modi in cui può cadere e posarsi la neve in italiano e in inglese, io le chiedo se la sua passione nasca come scrittrice o lettrice, perché ci vedo entrambe le qualità.
«Decisamente nasco come scrittrice, questa è una deviazione, un alibi. Ho iniziato a tradurre perché al termine della Scuola Holden mi è stato proposto, e io mi son detta, perché no! Ma il rapporto con la lingua si è sempre esplicato nella scrittura, sin da ragazzina».
Anche perché, quando si parla di traduzione letteraria, non si intende certo la mera trasposizione di termini da una lingua all’altra, c’è dell’altro. «Tradurre grande letteratura significa che hai qualcuno, c’è un disegno da qualche parte, non ti so dire dove, e come per osmosi il talento dello scrittore passa un po’ in te. Mi sento sostenuta da una scrittura letteraria di qualità. Capirai che per me è più difficile fare traduzioni non letterarie!».
Ma il legame si crea con l’autore o con l’opera che si traduce? Sempre che esista un legame. «Il rapporto si crea con i loro libri. Ho iniziato un’ora fa a tradurre McCarthy, ed è come se avessi ritrovato l’amore della vita dopo tanti anni. Per dire che è un po’ come tornare a casa. Il rapporto con gli scrittori è accessorio, non è assolutamente fondamentale: se fosse così smetteremmo di tradurre autori morti. Inoltre, non è detto che sia per forza utile perché l’autore vede il proprio testo da una prospettiva diversa rispetto a un traduttore. Inoltre non è italofono non avrà mai la stessa sensibilità che ho io con la mia lingua madre».
Arriviamo così a parlare di una delle giovani autrici contemporanee più argute e capace di restituire in maniera estremamente intelligente la sua generazione: Sally Rooney. In libreria da qualche settimana il suo ultimo ‘Dove sei, mondo bello’, atteso da molti e tradotto, come i due precedenti, da Maurizia Balmelli. «C’è un preciso motivo per il quale Einaudi me la propose all’epoca di ‘Parlarne tra amici’: quel libro aveva una forte componente dialogica. Che poi è quello che c’è anche in Fred Vargas, che ha la grazia di saper giocare con la lingua di strada. Per quanto riguarda più specificatamente la Rooney, lei lavora molto, e in questo libro ancora di più degli altri, sulla costruzione del personaggio attraverso la sua lingua specifica, il parlato. Essendo il mio punto forte il dialogo, è perfetto».
Non solo, lavorare su un libro di un’autrice simile è un piacere per la Balmelli perché «Sally Rooney è di un’intelligenza acuminata, e visto che un traduttore passa i mesi con la testa in comunicazione con quella della persona che ha prodotto l’opera, avere a che fare con persone intelligenti è fantastico!».
Ma cosa rende speciale la scrittura della giovane autrice irlandese? «Ha una capacità di leggere la contemporaneità e di metterla in discussione, la mette letteralmente all’angolo, è strabiliante. E poi c’è un’altra cosa per me irresistibile: il suo impegno politico. La critica marxista, la lettura dei rapporti tra le persone vista attraverso la lente dei rapporti di classe, è una cosa che raramente ho incontrato. La tematizza proprio, anche in maniera sexy. Quanto al sesso, in ciascuno dei suoi lavori è descritto in modo talmente realistico da risultare quasi disturbante, è un altro ambito cui Rooney ricorre per esplorare i rapporti di potere». Quel che conta, racconta la traduttrice, è poi trovare la giusta lingua, il giusto tono da dare all’opera, perché senza di quello è difficile che il lavoro riesca.
Alla luce di quanto detto, del fascino che trasmette la professione di Maurizia Balmelli, mi chiedo se poi, sulla carta, questo mestiere sia adeguatamente riconosciuto…
«Io purtroppo credo che questo tanto sbandierato interesse verso la traduzione vada ancora poco in profondità, credo sia piuttosto un trend. Il corrispettivo dovrebbe essere economico, siamo tutti nel mercato! La traduzione letteraria è travolta da un’aura di fascino, ma poi come veniamo riconosciuti, concretamente? C’è anche la questione delle royalties: non esistono i diritti d’autore per le traduzioni, per cui anche se un libro vende molto e l’autore è riconosciuto mondialmente, il traduttore non percepisce assolutamente una rendita pari al successo, non è prevista una percentuale delle vendite».
Insomma, nonostante l’importanza e il grande valore di un mestiere che permette la diffusione e la conoscenza della letteratura tra Paesi e lingue diverse sia indiscutibile, i traduttori sopportano ancora tariffe troppo basse (che cambiano in modo selvaggio da una casa editrice all’altra e, soprattutto, da Paese a Paese) e non sono tutelati nel loro prezioso lavoro. Il fascino, l’interesse, la moda che ha travolto la traduzione letteraria, persino lo status autoriale dei traduttori, non bastano di certo a compensarli oggi a giusto titolo.