Secondo una tesi, nel Paese si troverebbe il centro geografico del continente. Da lì, oggi, bisogna ripartire per rifondare l’idea di Europa
Si chiama Dilove ed è poco lontano dal confine con la Romania. Questo villaggio ucraino si contende con località di altri Paesi il ruolo di centro geografico del continente. L’abbiamo scoperto per caso, dalla fiera Olena, una delle rifugiate che abbiamo accompagnato a trovare salvezza in Svizzera: poche parole, ma mirate, le sue. Se questi calcoli risalenti all’Impero austroungarico siano corretti o meno poco importa: stupisce invece che il secondo più grande Paese europeo, nell’immaginario collettivo associato indissolubilmente all’Europa orientale, possa ospitare il centro dell’Europa.
Forse conviene partire da qui per una riflessione un po’ più ad ampio raggio. Che sia o meno il centro geografico, l’Ucraina è certamente diventata il centro politico e morale dell’Europa. Per il nostro reportage nel Paese in guerra non siamo entrati, ma Przemysl – quindici chilometri dal confine –, con le sue tante targhe e lingue, ne è l’anticamera. Un po’ a sorpresa, non abbiamo respirato aria di sangue e morte, ma voglia di riscatto, di coraggio e di estrema forza. Nei cuori di questi rifugiati c’è sì la disperazione della guerra, ma nei loro occhi abbiamo letto un’energia, una fame di vita, che non possono lasciare indifferenti. La stessa fame che anche il pur criticabile Zelensky sta dimostrando in questi giorni nella sua tournée virtuale.
Quest’istinto primordiale di chi lotta per la salvezza deve servirci da bussola, quando parliamo di questioni così delicate come i conflitti e le emergenze umanitarie. E la bussola indica un’unica direzione: quella dell’aiuto a chi ne ha bisogno. Si tratta di un dovere morale fondamentale e più alto rispetto alle polemiche sulla copertura giornalistica delle guerre o sulle responsabilità politiche delle varie potenze, per non parlare di chi nei dibattiti televisivi vuole imporre la propria opinione ma poi non è neanche capace di pronunciare Przemysl. C’è arroganza culturale, c’è ignoranza, tanta. C’è poca voglia di ascoltare e troppa di parlare. Olena invece parla poco e ascolta molto. E ci dà grandi lezioni di dignità.
Bisogna quindi ripartire dalle storie, innumerevoli, non solo dei rifugiati ma anche dei volontari. Quel che conforta infatti, a Przemysl, è l’energia positiva che nonostante tutto inonda la città. Perché questo dovere morale, questa bussola, ce l’hanno in molti. E vengono da tutto il continente. Da Paesi che fanno parte della Nato e Paesi che non ne fanno parte, da Paesi membri dell’Unione europea e non. Questo indica che i nostri valori sono comuni, al di là delle affiliazioni geopolitiche. L’evoluzione del conflitto è quantomai incerta, ma a un mese dall’attacco una certezza l’abbiamo già: l’Europa e gli europei sono vivi. L’onda benefica probabilmente senza precedenti ne è l’emblema. Questa forza va capitalizzata, va tramutata in un rinnovato spirito di collaborazione che non si limiti alle frontiere aperte e al mercato comune, ma che sia veramente inclusiva di tutti i popoli che condividono gli stessi valori, senza fratelli maggiori e minori e senza ipocriti paternalismi. È inevitabilmente una riflessione un po’ utopica, ma noi questi ideali a Przemysl li abbiamo toccati. Che bello sarebbe se anche la politica parlasse meno e ascoltasse di più. Come Olena.