Dialogo immaginario tra la filosofa ebrea Hannah Arendt (Ottavia Piccolo) e il criminale nazista Adolf Eichmann (Paolo Pierobon), a Locarno e Chiasso
Nel 1963, due anni dopo aver seguito a Gerusalemme il processo al criminale nazista Adolf Eichmann, la filosofa ebrea Hannah Arendt pubblicò ‘La banalità del male’, un resoconto per il New Yorker divenuto libro nel quale l’autrice ridimensionava la definizione di ‘genio del male’ spesso attribuita a uomini ‘spaventosamente’ normali come Eichmann, condotto verso l’abisso da motivi altrettanto normali come avidità e opportunismo. Ottavia Piccolo è Hannah Arendt, Paolo Pierobon è Adolf Eichmann: con la regia di Mauro Avogadro, ‘Eichmann. Dove inizia la notte’ va in scena il 22 e 23 marzo al Teatro di Locarno (www.ticketcorner.ch) e il 24 marzo al Cinema Teatro di Chiasso (www.centroculturalechiasso.ch). Nella dinamica che richiama ‘In quelle tenebre’, l’intervista della giornalista ebrea Gitta Sereny a Franz Stangl, comandante dei campi di sterminio di Sobibor e Treblinka, il testo di Stefano Massini mette Arendt e Eichmann fisicamente faccia a faccia, per ripercorrere la tragedia dell’Olocausto da un palco sul quale il colore più sgargiante è la fascia rossa al braccio del nazista, con sopra una svastica.
Ottavia Piccolo: fermato dal Covid, ‘Dove inizia la notte’ è tornato in scena il 24 di febbraio, giorno dell’invasione dell’Ucraina. Con quale spirito?
Visto il contenuto, ci siamo sentiti più coinvolti del solito, e abbiamo capito che anche il pubblico lo era. E tutte le sere, dal 24 febbraio, sentiamo che è diventato ancor più necessario parlare di cose che paiono lontane, ma che esistono da sempre: il male, la guerra, la responsabilità personale in ogni azione e, come emerge dal testo scritto da Massini, le due versioni della storia, e dunque la realtà che racconta Hannah Arendt e le giustificazioni di Eichmann. Siamo particolarmente calati in questo testo, sentiamo che quando il teatro racconta queste storie fa il suo lavoro politico, nel senso di rivolgersi alla polis, affinché si crei una discussione, un pensiero, una riflessione.
Di un suo precedente spettacolo, ‘Occidental Express’, storia di un’anziana donna che insieme alla nipotina percorre la rotta dei Balcani, lei ha detto: "Testi come questi servono a non girare la testa dall’altra parte". Vale anche per ‘Dove inizia la notte’?
Certamente. E questo spettacolo termina proprio con le mie parole: Massini fa dire al mio personaggio, con un poco di speranza negli esseri umani, che a volte l’uomo sa riconoscere il male e quindi sa scegliere, e non solo voltarsi dall’altra parte. Massini questa azione la compie scrivendo; noi attori, molto più artigianalmente, portando in scena la nostra fisicità, la nostra voce e il nostro pensiero.
Tornando a questa pièce. Realtà e giustificazioni è la litania di questi giorni…
Sì. È vero che non è mai tutto bianco e tutto nero, ma è anche vero che la lettura di certi avvenimenti da una parte così ‘infingarda’, non mi viene altra parola, è impressionante. D’altra parte, purtroppo, l’essere umano è fatto così e questo testo ci offre anche la possibilità di affacciarci sull’abisso che ognuno ha dentro di sé, per chiederci: "Ma io, davvero, come sono? Cosa avrei fatto? Cosa sono capace di fare?".
E la conclusione alla quale arriva Hannah Arendt è che Adolf Eichmann non fu un genio del male, bensì un mediocre...
Mediocrissimo, come la maggioranza di noi. È lì l’abisso, da lì nasce davvero la notte, benché l’ultima battuta dica che non si può capire dove la notte inizi e nemmeno quali abissi siano contenuti nell’essere umano. È il momento di totale pessimismo di Arendt, dal cui studio profondo sull’essere umano emerge che ci troviamo tutti sull’orlo.
Quanta attenzione richiede la costruzione di un personaggio come il suo?
Abbiamo evitato, d’accordo con il regista, qualsiasi tipo di documentarismo. Non sono vestita e truccata come conosciamo Hannah Arendt dalle sue fotografie, sono una signora ‘neutra’ che pronuncia parole che Massini ha generato studiando gli scritti della filosofa, dunque nulla è inventato. Per tutto lo spettacolo, ed è un’immagine che mi porto dentro fino alla fine, vedo Hannah Arendt come una sorta d’entomologo che studia un insetto nuovo, cosa che deve aver fatto assistendo al processo Eichmann, fino a smontare la versione che i responsabili dell’Olocausto fossero il male assoluto per parlare, al contrario, di ‘normalità del male’.
Le migliaia di persone che hanno permesso tutto questo non erano solo pazzi furiosi e sadici assassini. È gente ‘normale’ come Eichmann, che per tutto il processo ha sostenuto non solo di avere semplicemente eseguito degli ordini, la stessa versione dei processati a Norimberga; Eichmann afferma anche di non avere ucciso un solo uomo, anzi, di averne salvati a migliaia grazie ai campi di lavoro, proprio per aver permesso loro di lavorare. E quando Arendt gli fa notare che nemmeno uno su tre di quegli uomini è tornato vivo da ‘industrie’ come Auschwitz, Eichmann rimarca come uno su tre sia già un risultato. E in momenti dello spettacolo come questi devo fare enormi sforzi per controllare la mia espressione, per restare fedele a Hannah Arendt che dice più volte di non essere lì per giudicare, quello lo faranno i giudici, ma per capire l’abisso di Eichmann.
Con testo sempre di Massini, tra le donne che lei ha portato in scena c’è anche Anna Politkovskaja, soggetto quanto mai attuale…
Sì, ‘Donna non rieducabile’ continuano a chiedermelo. Massini ha letto tutto quanto ha scritto Politkovskaja ed è riuscito con una serie di ‘istantanee‘, come le chiama lui, non tanto a raccontarne la vita quanto le battaglie. È un testo semplice, lineare, ma di grande forza. Anna Politkovskaja morì nel 2006, io la porto in scena da maggio 2007. Mi accorgo che mi viene richiesta ogni volta che vengono fatti tacere dei giornalisti, ammazzati oppure zittiti, con la violenza o con metodi più biecamente economici, perché a volte basta la minaccia di un licenziamento a tappare la bocca. Gente che vuole raccontare ciò che vede e capisce ce n’è tanta; altrettanta viene fatta tacere.
Portando in scena questo tipo di opere si sente anche un po’ giornalista?
Da questo punto di vista, non è merito mio, semmai di Massini. Io non so scrivere, lui lo fa per me e m’accontento. Sul portare in scena questi argomenti non mi sono fatta molte domande. Quest’anno faccio 61 anni di teatro, di cinema e tutto il resto, e dopo molte cose importanti all’interno delle quali ero una delle tante componenti, oggi sono più ‘motore’ di ciò che voglio fare. Oggi non mi sento solo un’attrice ‘squillo’, da intendersi nel senso buono di chi attende una chiamata telefonica. Diciamo che oggi posso essere anche io a fare uno squillo ad altri.
Il vostro debutto senza pubblico riporta ai giorni del lockdown, coi teatri ‘profanati’ dal Covid. Il Teatro di Mariupol adibito a rifugio chiama altra profanazione…
Quanto al cambio d’uso obbligato, ricordo l’effetto strano provato dentro ‘El Ateneo’ di Buenos Aires, un teatro di fine Ottocento trasformato in una libreria meravigliosa; un effetto strano ma consolatorio. Mi dissi: "Non è più un teatro, ma almeno è una libreria". Sul palco c’è addirittura un piccolo ristorante. Ecco, in questo momento vorrei solo richiamare questa immagine, da intendersi come un buon auspicio.