Pressione sugli ospedali in calo, via le mascherine. Ma le cicatrici di 2 anni restano. Come uscirne (bene)? Ne parliamo con lo psichiatra Michele Mattia
«Siamo stati sotto un condizionamento importante durato due anni: un condizionamento dei nostri comportamenti e del nostro modo di pensare, dovuto anche al passaggio da uno stile di vita autonomo e indipendente al suo stravolgimento, a regole che ci hanno allontanati da tutto e da tutti. Quella che si sta aprendo è una fase importante e allo stesso tempo delicata». Se si vuole ragionare su come uscire, davvero, dalla pandemia ora che il Consiglio federale e la situazione epidemiologica danno molto più sollievo e ottimismo, per il dottor Michele Mattia, psichiatra, psicoterapeuta e presidente dell’Associazione della Svizzera italiana per l’ansia, la depressione e i disturbi ossessivi compulsivi Asi-Adoc, si deve per forza partire da questo fatto.
Anche perché, dottor Mattia, per la prima volta dall’inizio della pandemia non siamo confrontati con una situazione in peggioramento o provvisoria, ancora in attesa dei vaccini, come nell’estate 2020 ad esempio. Siamo in una situazione che sta migliorando. Si può aver timore di qualcosa di bello, come un ritorno alla normalità, il vedere un concerto senza mascherina, l’abbracciarsi, il bere una birra insieme in tutta tranquillità?
Gli ultimi due anni li abbiamo vissuti in una dimensione di iper protezionismo, dovuto alle restrizioni in atto di concerto con l’angoscia della malattia e della morte. In questa fase incontreremo fasce della popolazione che sono state molto condizionate, che hanno dovuto modificare il loro modo di pensare, di agire e di percepire il pericolo del virus. Per queste persone la scontata libertà di incontrarsi e di abbracciarsi prepandemica, è diventata, ora, angoscia di ritornare nei gruppi e nei posti sociali: avranno bisogno di più tempo per abituarsi alla nuova normalità. Chi è nell’angoscia e pervaso dalle nuove regole, faticherà a uscirne. Altre fasce della popolazione, che hanno subito la dimensione delle regole senza che però siano entrate davvero dentro di loro, si riabitueranno quasi euforicamente, avranno un adattamento molto veloce dopo aver subito questo periodo. In tutto ciò mi preme sottolineare che il Consiglio federale non ha imposto di non mettere più la mascherina, ma ha autorizzato in molti contesti a non metterla più. Sarà una nostra scelta cosa fare: avremo persone che la porteranno ancora e altre no. Ad esempio chi ha usato il termine ‘Freedom day’ ha messo in atto una forzatura, perché non corrisponde alla realtà.
Come può la società, una comunità, un gruppo aiutare chi porta cicatrici più marcate a uscire con serenità da questa fase pandemica? Penso a chi sceglierà di continuare a indossare la mascherina, chi avrà ancora timore ad andare in luoghi affollati, chi insomma non riuscirà a liberarsi presto di paure e meccanismi mentali?
Auspico fortemente che si sviluppi immediatamente la capacità di comprendere che ognuno di noi è differente, anche all’interno di aree comuni della società. Queste differenze non devono portare a pregiudizi, facili commenti, derisioni e allo sminuire l’altro come se non avesse capito nulla o vivesse in un altro mondo. Possiamo finalmente recuperare delle sane e importanti abitudini pre pandemiche, ma mantenendo per chi non è ancora pronto le abitudini pandemiche. La popolazione dovrebbe cominciare a sviluppare un’attenzione riflessiva sull’altro accogliendo quello che è il comportamento altrui: se lo accogliamo, si riduce la dimensione di una possibile aggressività sociale che in questo periodo si sta evidenziando in modo significativo, e ci aiuta a farci accogliere anche noi stessi.
In questa fase il linguaggio avrà un ruolo importante. Prima della pandemia una persona ‘positiva’ era una persona allegra, divertente, ottimista. Oggi per alcuni è sinonimo di una possibile ospedalizzazione, della possibilità di morire. Altri fanno semplice ironia, che tanto semplice non è mai. Come uscirne?
Il linguaggio è uno degli strumenti più importanti per amplificare o ridurre un evento, per distorcere o dargli un significato adeguato. Uno dei suoi problemi è che viene utilizzato dai media, dai social network, da ogni canale comunicativo che arriva a una persona. Almeno i media di riferimento, come giornali e tv, si spera che utilizzino un linguaggio più differenziato, dove la dimensione della pandemia si riduce nella sua importanza proprio a livello di pagine o minuti dedicati. Deve diventare uno degli argomenti di cui possiamo parlare, non più essere l’unico. Altrimenti si perde la differenziazione e le persone vengono ancor più condizionate. È il linguaggio a creare il comportamento, e considerando che nella media della popolazione il linguaggio che si sente viene introdotto in maniera acritica nel proprio pensiero ecco che il comportamento è consequenziale. Differenziare, utilizzare meglio il termine ‘positivo’ come da lei detto, è fondamentale. Diamo nuovamente un significato semantico alla parola incarcerata.
C’è da dire, però, che due mesi fa con la diffusione di Omicron si parlava solo di vaccinazioni, test, tamponi, contagi schizzati verso l’alto. Alcuni medici hanno fortemente criticato il Consiglio federale per la sua scelta, durante le vacanze natalizie, di aspettare dati certi prima di pensare a ulteriori misure. Adesso, due mesi dopo, con i dati aggiornati di sieroprevalenza che salgono al 73% in Ticino, e valutato che Omicron porta a decorsi molto più blandi, la mascherina diventa facoltativa. La realtà è cambiata, d’accordo. Ma può generarsi confusione in chi vive momenti così diversi in un così breve lasso di tempo.
Lei tocca un punto cruciale, cioè il grande errore comunicativo fatto nello spingere sul catastrofismo o sull’eccesso di allarmismo. Laddove c’è stato un catastrofismo mediatico importante, dove c’è stato chi ha criticato il Consiglio federale durante le vacanze natalizie come da lei ricordato ci son stati dei problemi. Io ho apprezzato che il governo non sia caduto in questa pressione intrappolante che ha invece colpito molte persone nelle quali si sono instillati molti dubbi. La nostra società è sempre più sospettosa, è emersa una paranoia sociale, già soggiacente a mio modo di vedere, che con la pandemia e con questi errori comunicativi è esplosa. In questi casi ognuno plasma la propria realtà, si chiede cosa c’è dietro, chi manipolava prima e chi oggi. In questo momento bisogna pensare al significato che le parole usate avranno nei prossimi due o tre mesi, e non solo nei prossimi giorni. Abbiamo necessità di sicurezze maggiori in prospettiva futura.
Quali consigli si sente di dare alle famiglie per accompagnare i più giovani, i figli, in questa fase di uscita da una pandemia che li ha molto segnati?
Innanzitutto ascoltare i loro timori, non sforzarli troppo all’inizio, permettere che trovino una propria strada per tornare a vivere senza mascherine, abbracciarsi, giocare. Poi che il genitore non porti sul figlio le proprie ansie e paure, potrebbe creare un peggioramento significativo per la socializzazione.