La fine delle restrizioni ci fa sperare in qualcosa di più simile alla normalità, ma non sarà semplice: ne abbiamo viste tante, tra eroi e scemi di guerra
Stufi e inebetiti, come se avessimo trascorso troppe ore guardando scivolare la realtà dall’altra parte del finestrino, seduti su un treno semivuoto che chissà quando si fermerà. Col dubbio che al momento di scendere non ci reggano le gambe. Ora c’è sollievo, certo, nel vedere che Berna toglie anche le ultime restrizioni: via le mascherine, via il Covid Pass. C’è la speranza di chiudersi quell’uscio dietro alle spalle una volta per tutte (anche se gli scongiuri di rito son doverosi, con tutte le volte che poi si è rivelata una porta girevole). Ma resta anche quella sensazione lì, il pungente sospetto che ci vorrà tempo per riabituarci a qualcosa che somigli almeno un po’ a ‘com’era prima’, foss’anche solo per le cicatrici: i morti, il long Covid, le persone che restano più vulnerabili a un virus che comunque continua pericolosamente a circolare, imponendoci ancora parecchia prudenza.
In questi due anni – Codogno fu ‘blindata’ il 20 febbraio 2020, il 25 si registrò il primo contagio in Ticino, il 16 marzo scattava il primo lockdown – abbiamo attraversato collettivamente tutte le fasi che si accompagnano a traumi e lutti, dalla denegazione alla paura, dalla rabbia alla depressione. Certe immagini resteranno con noi per sempre: gli intubati e i camion pieni di bare, i nonni che salutavano i nipoti dalla finestra, chi scendeva in piazza contro i vaccini e le mascherine. In Svizzera la prima ondata ha bloccato tutto, la seconda è stata affrontata con misure più blande, di tutte le altre ormai abbiamo perso il conto. In redazione abbiamo preso a chiamare ‘giorno della marmotta’ il rituale momento in cui ci tocca annunciare nuove chiusure o aperture, come in quel film con Bill Murray condannato a ripetere sempre la stessa giornata. Al punto che le parole "si sfarinano in bocca come funghi marci", per dirla con Hofmannsthal.
Anche se il paragone bellico è stucchevole e irrispettoso, ci è capitato di osservare tutti i personaggi archetipici che di solito racconta chi ha visto il fronte: l’eroe e il disertore, il fante e il generale, lo sciacallo, lo scemo di guerra. Chi ha rischiato la pelle per noi e chi – per ignoranza o per dolo – diceva che era un’influenzina, che lui comunque doveva riaprire la fabbrichetta, che il vaccino è veleno. Errori ne sono stati fatti su diversi fronti, ma nulla resta paragonabile all’ignobile birignao di chi ha fomentato le persone contro la sicurezza del prossimo. Quelli che gongolavano a vedere certa gente in piazza e ora son passati alla pantomima, inventandosi fantomatici ‘comitati scientifici’ – rigorosamente anonimi – pur di gettar dubbi perfino sull’utilità delle mascherine (vedrete che oggi chiederanno sghignazzando ‘ma come, se erano così utili perché ora non sono più obbligatorie?’, come se dopo una frattura si dovessero portar le stampelle per tutta la vita).
«Ne usciremo tutti migliori, come dicevano alcuni all’inizio? Francamente non credo, semmai abbiamo accumulato qualche esperienza di cui far tesoro», ci diceva qualche giorno fa (‘laRegione’ del 9 febbraio) Fra Edy Rossi-Pedruzzi, un Cappuccino che da Faido riesce a vedere il mondo: «Il senso improvviso di enorme fragilità ha tirato fuori dalle persone il loro meglio e allo stesso tempo il loro peggio. Da una parte la solidarietà, lo spirito di adattamento, l’empatia. Dall’altra certe reazioni rabbiose, aggressive, saccenti, con troppi che credono di essere informati e cedono alla tentazione di credersi medici, senza possibilità di un dialogo, di un confronto». Speriamo di riuscire a scendere almeno da quel treno.