La reazione alla morte del presidente dell’Europarlamento mette in evidenza la schizofrenia social, tra (auto)santificazioni e orrendi complottismi
Ne ferisce più la penna che la spada. Per non parlare della tastiera, che non solo ferisce, ma spesso uccide un uomo già morto. Perché sì, i nostri avi ci hanno messo secoli a capire come seppellire al meglio i nostri morti. Chissà quanto ci vorrà per imparare a seppellire i personaggi famosi sui social network.
Quel che – su Facebook e dintorni – ha fatto seguito alla morte di David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, sarebbe materiale buono almeno per un capitoletto di un manuale che purtroppo ancora non c’è.
Da una parte l’ennesima rappresentazione di Gesù Cristo in terra, l’umile, simpatico, empatico ex giornalista che stava salvando più o meno da solo l’Europa senza che nessuno lo sapesse (e lo dicesse) fino al giorno prima, dall’altra i complottisti amatoriali e di mestiere, che al posto delle ali usano la connessione internet per saltare come avvoltoi sull’ultimo cadavere ancora caldo. Lo fanno per tirare acqua al proprio mulino e somme di una matematica imprecisa e sbilenca, tutta loro.
Questi ultimi, sui social, spesso nascondono le loro facce dietro ad avatar e slogan, a volte perché una faccia non ce l’hanno – essendo profili inventati di sana pianta solo per aizzare polemiche – a volte perché hanno ancora quella briciola di amor proprio (ma non per gli altri) da nasconderla. Poi c’è chi la esibisce: ma si sa, le facce toste esistono da prima del web, solo che ne incrociavamo meno. L’immagine perfetta per dare un volto a tutti questi cannibali, che divorano – post dopo post – l’umanità pezzo a pezzo, è dentro un’acquaforte che si chiama “Las resueltas”, dove animali molto simili a pipistrelli si lanciano a tutta velocità contro un cadavere per spolparlo.
“Las resueltas”, acquaforte di Francisco Goya (Wikipedia)
“Las resueltas” fa parte delle 82 incisioni che formano “I disastri della guerra” di Francisco Goya (sì, proprio lui, quello, non a caso, de “Il sonno della ragione genera mostri”), dove l’artista spagnolo sembra fare – con due secoli d’anticipo – una precisa allegoria del nostro accapigliarci quotidiano: eppure parlava di altri morti, di guerra e carestie. Ma la morte, come diceva Totò, è una livella: ci rende tutti uguali. A differenziarci era, sarebbe, l’immagine che lasciamo in vita a chi ci sopravvive: ma ormai l’immagine che i personaggi più o meno famosi ci lasciano non è più la loro, ma lo specchio riflesso di chi la commenta. Un’istantanea del nostro ego e delle nostre certezze.
David Sassoli sembrava una brava persona che aveva saputo incarnare ideali di fratellanza e convivenza civile, uno stimato professionista, un politico non urlatore, forse per via dei privilegi che in parte aveva avuto in sorte e in parte si era guadagnato. Chi era davvero David Sassoli, come per tutti noi, resta incastrato nella famosa frase di Gabriel García Márquez: “Abbiamo tutti una vita pubblica, una privata e una segreta”. E sia chiaro, non è un’insinuazione, ma solo pratica del beneficio del dubbio, quello che non esercita mai chi celebra un morto oltremisura per celebrare in realtà sé stesso, una vicinanza fisica o di pensiero, spesso casuale, fittizia e illusoria come un’amicizia superficiale, una breve intervista, una colazione al bar, un tratto di strada assieme.
Lo stesso identico dubbio ignorato da chi sputa veleno su un morto in un reparto oncologico per una disfunzione al sistema immunitario dando la colpa al vaccino. Chi si spiega tutta la vita come un complotto, ribalta ogni cosa rispetto al suo significato. Un po’ come l’onnipresente “Rip”, che si moltiplica svuotato sulle bacheche social: non più “riposa in pace”, ma “in polemica”.
Uno dei messaggi social che mette in correlazione la morte di Sassoli con il vaccino (Keystone)