Memoir privato, ma aperto anche ai suoi personaggi. L’autrice è la figlia Elisabetta, in un libro uscito per Baldini+Castoldi
“Alle dieci e trenta scarse, finita la cena, il maestro Canello, che aveva un altro impegno in un altro veglione, barò bassamente annunciando al microfono: ‘Attenzione! Mancano tre minuti a mezzanotte, rimettete gli orologi, preparate lo spumante!’”. A seguire, il conto alla rovescia che portava all’anno nuovo, che per il fuso orario degli invitati cadeva in verità “all’una e trenta, ora illegale del maestro Canello”. È l’audio del finto Ultimo dell’anno del ragionier Ugo in ‘Fantozzi’, 1975, primo insuperato episodio della saga diretto da Luciano Salce, regista pure del degnissimo sequel del 1976. Può capitare, aspettando la mezzanotte, di chiedersi se qualche buontempone non abbia per caso spostato le lancette avanti come il maestro Canello, con tutti gli annessi e connessi del caso: in primis, la Bianchina del ragioniere, ridotta a un cumulo di macerie dall’elettrodomestico lanciato da un balcone, nel trionfalistico “Buttate, buttate! Anno nuovo, roba nuova!”, diventato di lì a poco un laconico “Beh, io quasi quasi la lascio parcheggiata qui…”.
Letto a fine anno, ‘Fantozzi dietro le quinte’, il ricordo di Paolo Villaggio scritto dalla figlia Elisabetta per Baldini+Castoldi, chiama quella scena e tante altre, contemporanee o successive all’opera prima, con un corrispettivo in apertura di libro, il frenetico Villaggio che nel 1975, in occasione della ‘prima’ di ‘Fantozzi’ nei cinema, corre di sala in sala a tastare il polso al suo pubblico. Corsa che, liberamente traendo, un po’ ricorda il ragionier Ugo martellato sul pollicione dal collega e amico Filini, con lui nell’atto di montare la tenda sul lago di Bracciano; ragionier Ugo che proprio verso il lago, rispettoso del sonno dei campeggiatori, libera compostamente il suo straziante urlo di dolore per l’arto colpito. Ma nel 1975 reale la location è Roma, sede di una “mite serata di primavera” scelta per presentare quel film “che avrebbe cambiato la vita sua, mia e di tante altre persone”, scrive Elisabetta Villaggio.
Al Cinema Barberini, quel 27 marzo, la sala è riservata a familiari, amici, critici e vip vari: “Ricordo che mio padre era emozionatissimo e mascherava i sentimenti con velocità: nel parlare, nel muoversi, nel fare le cose”. Quella sera, caricati i figli e gli amici dei figli a bordo di un pulmino con autista, Villaggio prende con sé il solo figlio Piero e lascia il Barberini a film appena iniziato, per fiondarsi in altre due sale della Capitale: “Vado lì perché voglio vedere le reazioni del pubblico vero”, dice; e per “pubblico vero” intende “il pubblico non blasonato e invitato, quello dei critici, dei cinematografari”, scrive oggi Elisabetta, “il pubblico della classe impiegatizia, quella che lui aveva descritto e raccontato nel suo primo libro pubblicato nel 1971”, e cioè ‘Fantozzi’ (Rizzoli), Premio Gogol nell’allora Unione Sovietica come miglior opera umoristica. “Voleva capire se la gente rideva al cinema, se la gente apprezzava quel buffo omino che aveva creato”. Per questo motivo si era infilato tra le poltrone del Royal di via Emanuele Filiberto a luci spente, certo di non essere riconosciuto, rilassandosi dopo le prime risate rivolte a quel personaggio che sarebbe diventato “un tarlo, una specie di peccato originale”, superato nel 1992 con il Leone d’oro alla carriera.
‘Fantozzi dietro le quinte’ contiene la gradita dose di aneddoti. Il ragioniere che prende l’autobus al volo, per esempio, che nel primo film si cala in strada dal terrazzino di casa sua, scena che viene pari pari dal tentativo di un più giovane Villaggio di prendere il tram in corsa su corso Galliera a Genova, con gli inquilini alla finestra a gridargli “Coraggio!”. O la scena delle polpette, che esiste solo grazie alla colletta partita dall’attore protagonista e che raggiunse finanche gli amici, perché quella del terribile professor Birkermaier era l’ultima scena e i soldi per comprare altra pellicola erano finiti.
Prodiga di aneddoti è anche Anna Mazzamauro, tra le voci del libro. Pensata inizialmente come Pina, divenuta poi la cinica signorina Silvani, fu un battibecco con Federico Fellini, scontenta di lei come doppiatrice, a portarla da Luciano Salce, che col riminese condivideva l’aiuto regista. E nel libro, il racconto è uno spasso: “Avevo già lavorato con Salce a teatro (…) però non sapevo niente di Fantozzi e dei cessi che cercavano”. E aggiunge: “Sono felice di essere conosciuta come la Silvani e sono consapevole che devo a Paolo il fatto di aver costruito, certamente insieme ad altri, la storia del cinema”. E quindi “se qualcuno mi chiede di dirgli ‘Sei una merdaccia schifosa’ lo faccio con ironia, e anche se mi chiedono di fare il labbruccio della Silvani (…) Mi fa piacere e penso a quante mie colleghe avrebbero pagato pur di avere una simile riconoscibilità”. Sulla stessa linea è Milena Vukotic: “La gente ancora mi riconosce per strada e mi chiama Pina. O Pina Villaggio o Pina Fantozzi oppure Pina Vukotic. Mi guarda e sorride. Ed è una cosa che mi tengo stretta perché attingere alla sensibilità e al piacere delle persone è cosa magnifica”.
Altre voci sono quelle di Diego Abatantuono, il panettiere del quale la Pina s’innamora in ‘Fantozzi contro tutti’, o Neri Parenti, al timone della saga da quel terzo episodio in avanti, all’epoca 27enne e al suo secondo film, affiancato a Villaggio che voleva dirigersi da sé. E poi Fabio Frizzi (fratello maggiore del fu Fabrizio), autore delle musiche del primo, secondo e ultimo capitolo della saga. E le molte voci di famiglia, dalle quali si evince che Fabrizio De André scrisse ‘La canzone di Marinella’ proprio a casa dei Villaggio.
A chiudere, in coda a tutto il resto di cui non abbiamo detto, le lettere di Elisabetta al padre scritte durante il lockdown. Chissà cosa avrebbe detto del lockdown Villaggio, chissà come l’avrebbe affrontato il suo omino, oggi che il web pullula di meme come “Dopo 30 ondate, 60 varianti e 72 dosi, Fantozzi cominciò ad avere un leggerissimo sospetto…”.