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Di quale democrazia hanno parlato?

Più che l’esclusione di Cina e Russia, certi inviti al Summit Usa (Polonia, Brasile...) riflettono la politica americana e non i veri valori democratici

Joe Biden, anfitrione del Summit per la democrazia (Keystone)
13 dicembre 2021
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Se non ve ne siete accorti – il che è molto probabile – la settimana scorsa si è svolto un super-vertice fra le nazioni democratiche. Due giorni di colloqui ‘in videoconferenza’. Oltre cento Paesi invitati (Svizzera inclusa). Fra le escluse Cina e Russia. Ideatore del summit e gran cerimoniere Joe Biden. Certo, che le democrazie liberali, da anni oggetto di innumerevoli analisi sulla loro crisi in fatto di funzionamento e rappresentatività, abbiano bisogno di essere rianimate, consolidate, rinnovate è fuori dubbio. È del resto nelle ampie pieghe dei loro malanni politico-economici che si sono irrobustiti i fenomeni populisti, nazionalisti, sovranisti dell’ultimo ventennio. Un termometro preoccupante. Ma che a indicare la via dell’indispensabile rigenerazione democratica sia proprio il vertice degli Stati Uniti suscita più di un dubbio. Innanzitutto nel metodo e nella forma.

Fuori gli ‘Stati canaglia’, che favoriscono o favorirebbero il terrorismo: d’accordo. Poi, che si siano escluse Mosca e Pechino, chi può contestarlo, vista la loro progressiva o plateale violazione dei diritti umani? Ma che si invitino il Pakistan protettore dei Talebani afghani, l’India dell’induista radicale Narendra Modi che discrimina la grande e pacifica minoranza musulmana, le Filippine del pistolero Duterte, il Brasile del Bolsonaro nostalgico della dittatura militare, o la Polonia che piega alla volontà del governo magistratura, forze dell’ordine, informazione, beh la dice lunga sull’idea che la Casa Bianca ha della democrazia. La verità è un’altra, del resto denunciata da due giornali non aprioristicamente anti-Biden: il Washington Post, che scrive di un criterio di scelta basato unicamente sugli ‘interessi nazionali e statunitensi’, e l’Economist affermando che gli inviti riflettevano ‘la politica americana più che i valori democratici’.


Xi Jinping e Vladimir Putin, i due grandi assenti (Keystone)

Sono anche i giorni in cui si scopre, grazie alla sbadataggine di un grullo ex capo dello staff presidenziale e delle rivelazioni di Guardian e New York Times, un dettagliato piano redatto dai collaboratori di Donald Trump per un colpo di Stato che doveva permettergli di rimanere al potere grazie anche all’intervento dell’esercito; non proprio una cosuccia da operetta, bensì un progetto integrato nel violento assalto a Capitol Hill per scippare la vittoria a Biden. E parliamo di quella che insiste a definirsi ‘la più grande democrazia del mondo’. In cui oltre il 60 per cento degli elettori repubblicani continua a credere che Trump (amato dal suprematismo bianco) sia vittima di una colossale frode, e dove i governatori suoi seguaci varano nuove leggi (ben 33 in meno di due anni) allo scopo di ridurre il peso elettorale soprattutto della minoranza afro-americana.

Infine, nella settimana del Summit for Democracy, l’America ottiene dall’Alta Corte inglese il trasferimento nelle prigioni americane di Julian Assange, fondatore di Wikileaks, accusato di 18 imputazioni per un totale di 175 anni di carcere, per aver diffuso migliaia di documenti ‘classificati’, che hanno confermato le criminali malefatte degli Stati Uniti nelle due guerre, e nelle altrettante sconfitte, in Iraq e Afghanistan. Un colossale attacco alla libertà di stampa.

Di quale democrazia stiamo parlando?


Protesta per la sentenza di Londra sul caso Assange (Keystone)