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Il teatro e le forze del disordine secondo Romeo Castellucci

Il regista teatrale ha incontrato la stampa prima del debutto, sabato 9 e domenica 10, del suo ‘Bros’ coprodotto dal Lac

9 ottobre 2021
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Seduti in una poltrona, mangiando un gipfel dopo aver bevuto un caffè, attendiamo l’arrivo di Romeo Castellucci: il regista italiano è in ritardo, trattenuto dalla preparazione del suo spettacolo ‘Bros’ – come si dirà, non si può parlare di prove –, ma siamo nel salotto che il Fit, Festival internazionale del teatro e della scena contemporanaea, ha allestito nella Sala 4 del centro culturale, l’atmosfera è quella di un incontro informale più che di una conferenza stampa e l’attesa passa veloce, tra chiacchiere e la lettura di un Indice comportamentale che i partecipanti a questo progetto devono sottoscrivere (ne trovate qualche passaggio nell’immagine).

Quell’Indice è alla base di ‘Bros’. «In scena non ci sono attori: il lavoro è fatto da perfetti sconosciuti selezionati tramite una specie di appello e che hanno firmato questo indice di comportamento» ha spiegato Castellucci rispondendo a una domanda del direttore artistico del Lac Carmelo Rifici. Niente attori, quindi, ma persone comuni che vestite da poliziotti ricevono degli ordini dal regista tramite un auricolare.

Niente attori e anche niente prove: giusto una preparazione sul tipo di azioni che potrebbero essere chiamati a compiere. Il resto sarà una sorpresa per il pubblico, per gli interpreti – il regista avrebbe voluto persone diverse per ogni rappresentazione, ma con il Covid è troppo complicato così «lo stratagemma per preservare questo tracciamento è stato cambiare ogni sera i comandi» – e anche per il regista stesso. «È un lavoro che non è concepito come d’abitudine, con delle prove, una messa in scena che si costruisce un po’ alla vota con l’esperienza degli attori: tutto questo è stato tagliato e sfugge anche a me». E in alcune delle risposte si è percepita un po’ d’ansia per l’incertezza su quel che potrebbe accadere sabato e domenica.

I ‘non attori’

Castellucci è ben attento a non definire attori le persone che sul palco ubbidiranno – si spera, perché come si dirà rimane aperto uno spazio per la disobbedienza – ai suoi comandi. Ma, gli chiediamo, dove è il confine? Dopotutto anche un attore normale segue quanto ordinato dal copione e dal regista. «Certo, c’è anche – a voler usare una parolaccia – una questione di metalinguaggio, perché il tutto è anche una metafora del teatro: gli attori sono comunque dei consegnati che devono rispettare delle funzioni, sono a loro modo macchine, per quanto calde. È la loro offerta, la loro oblazione. In ‘Bros’ questa alienazione – in senso etimologico – è portata alle estreme conseguenze: i protagonisti sono spossessati completamente, non c’è la fase della coscienza, non c’è la fase della scelta, l’azione è schiacciata, non c’è tempo di scegliere, occorre agire. Questo taglia tutta un’idea romantica di attorialità: è una visione dura, brutale dell’attore».

Ordine e violenza

Queste digressioni sull’incertezza e sull’attorialità non devono ingannare: il tema principale di ‘Bros’ è un altro. Questo spettacolo nasce come riflessione sull’ordine, sulla violenza, sulla legge. Il fatto che gli “attori” siano vestiti da poliziotti è quindi un elemento centrale. «Il personaggio di questo lavoro è il corpo di polizia» ha spiegato Castellucci. Ed è alla base della genesi di questa insolita produzione. «È sempre difficile dire perché si fa una cosa: molto spesso siamo scelti da quella cosa, si realizza quella cosa come una risposta a una spinta». Una spinta che Castellucci cerca in un’esperienza vissuta in Francia: «Sono rimasto molto colpito, come cittadino: mi trovavo a Parigi per un mese e mezzo, nel cuore del fuoco delle proteste dei ‘gilets jaunes’ e stavo in una via che era sempre presidiata da centinaia di poliziotti. Dovevo continuamente attraversare questo schieramento di persone in uniforme». Ne è seguita una sensazione «di estrema fragilità di fronte a una forza oscura e arcaica – e questo lo dico al di là dei giudizi sociali e politici».

Su quest’ultimo punto, il giudizio sociale, Castellucci è tornato rispondendo a un’altra domanda: «Non c’è un giudizio, non ho nessuna dichiarazione da fare sulla polizia o contro la polizia. Non è il mio compito dell’arte, non è il compito dell’arte: parlo per me, ci sono opinioni differenti, ma l’arte non ha nulla a che fare con l’attivismo». Il che comunque non significa indifferenza, dal momento che a un certo punto Castellucci accenna all’uccisione di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis «che mi ha turbato moltissimo e ha messo in dubbio tutto il progetto».

Lo spettacolo si è dunque sviluppato intorno a questa «immagine primitiva, arcaica di una specie di gruppo, di clan: ‘Bros’ sta per “fratelli”, per la fratellanza del corpo di polizia, un corpo anonimo e rivestito dalla potenza inaudita dell’uniforme». Uniforme che porta al tema della legge – «uno dei terreni su cui la tragedia attica si è fondata: la necessità della legge ma anche la maledizione della legge» – e soprattutto della violenza: «Solo la polizia è legittimata a usare la violenza, è un potere che apparentemente noi cittadini diamo loro». La violenza è un tema centrale del teatro. «Di tutto il teatro, non parliamo solo di me ma anche ad esempio di Molière: il teatro comico è particolarmente violento. È un fatto complesso che andrebbe certamente analizzato: l’arte ha a che fare con la violenza, la religione ha a che fare con la violenza perché la vita è violenta, secondo la visione tragica l’essere nati è un fatto violento».

Una goccia di disordine

In scena questi “non attori” riceveranno degli ordini. «Esattamente come avviene nel corpo di polizia: il poliziotto è colui che riceve un ordine e, in quanto membro delle forze dell’ordine, è anche colui che deve imporre un ordine». In tutto questo ordine Castellucci vuole inserire una “goccia di disordine”: «Queste persone sono all’oscuro di tutto, gli ordini che ricevono sono soprattutto individuali ma in alcuni momenti collettivi». Rifici chiede se è prevista la disobbedienza. «Più che altro è previsto l’imbarazzo, è prevista l’ambiguità: alcuni comandi sono tendenziosamente poco chiari proprio per metterli alla prova, per vedere come reagiscono. Alcuni comandi saranno quindi fraintesi, spero siano fraintesi e tutto questo compone una massa di gesti che ha a che fare con il caos, con la confusione».

Concludiamo il resoconto dell’incontro con Castellucci dal punto dal quale eravamo partiti: l’Indice comportamentale. Come viene recepito dai partecipanti, ha chiesto Rifici. «Alcuni rifiutano: leggono “sono disposto a diventare un poliziotto” e dicono “grazie, no”. Altri rispondono in modo entusiasta, entrando nello spirito di queste dichiarazioni che a un certo punto deragliano». I continui “anche se non capisco questa frase” rispondono a questa esigenza? «È un modo per metterli alla prova: se passano da questa porta stretta saranno in grado di affrontare il resto, perché è chiaro che è necessaria una complicità filosofica e artistica».