L’impero americano – ferito, ma non finito a Kabul – sposta nel Pacifico il confronto con l’emergente nemico cinese
Tutti gli imperi sono destinati alla decadenza e alla scomparsa, ci ripetono gli storici. Non sono in pochi oggi a vedere nella caduta di Kabul in mano talebana l’inizio della fine di quello americano. Ovviamente Washington non vuol sentirne di consegnare il testimone per il prossimo secolo all’antagonista cinese. E sposta strategicamente con alcune spettacolari mosse il confronto dall’Asia centrale a quella orientale.
In ‘Il Grande Gioco’, appassionante testo di riferimento già segnalato in queste colonne, Peter Hopkirk ci ricorda gli antefatti che indussero poi un agente della Cia a coniare per l’Afghanistan l’epiteto di “tomba degli imperi”. Lì si consumarono nelle micidiali guerre contro gli emiri della regione l’agonia della potenza britannica e quella dell’impero russo alla ricerca di riscatto, già dal ’500, dopo esser stato annientato e sottomesso per due secoli dalla Grande Orda di Gengis Khan e suoi discendenti. Così anche le mire di San Pietroburgo sull’India britannica si infransero tra le maledette montagne dell’Hindu Kush. Quando nel 1979 Leonid Brezhnev decise di muovere le truppe verso Kabul, ‘Il Grande Gioco’ non era ancora stato pubblicato. Lo fu dieci anni dopo, troppo tardi per far rinsavire i leader comunisti, quando la devastante disfatta piantò quattro chiodi sulla tomba dell’Urss.
Con la rovinosa partenza da Kabul, gli Americani non hanno evitato smacco e sconfitta, ma si sono indubbiamente sottratti al destino degli imperi che li hanno preceduti. Stabilita con largo anticipo, la decisione di abbandonare il Paese risponde alle nuove priorità strategico-commerciali. Che tutte riconducono alla centralità della Cina. La battaglia tra giganti è così emigrata a oriente, nel mare cinese meridionale: da una parte l’impero che non vuol saperne di decadere, dall’altra l’impero emergente, destinato a succedergli. Il teatro in cui va in scena la nuova guerra fredda è un’area in cui Pechino ambisce a riprendersi Taiwan, e in cui non esita a calpestare i piedi ai “piccoli” antagonisti, Filippine, Malaysia o Vietnam. Rinnegando gli impegni assunti con Obama, la Cina ha già conquistato e militarizzato una manciata di isolotti, da tempo immemore “terrae nullius”.
È tuttavia poco probabile che Pechino e Washington cadano nella “trappola di Tucidide” avviandosi verso lo scontro armato. D’altronde i cinesi, memori dell’insegnamento del loro grande generale dell’antichità Sun Tzu, sanno che è molto meglio vincere le battaglie… senza combattere. Lo scontro tra il vecchio capitalismo occidentale liberale e il più recente capitalismo orientale autocratico utilizzerà le armi della finanza, del commercio, della concorrenza sleale, dell’hackeraggio, del controllo delle terre rare indispensabili per smartphone, fibre ottiche, semiconduttori.
È in questo nuovo orizzonte imperiale che si iscrive dunque gran parte della politica estera americana: non a caso a poche settimane dal rovescio afghano, Washington ha creato, suscitando anche la rabbiosa reazione francese, un’alleanza con Regno Unito e Australia e fatto risorgere il quadrilatero (“Quad”) che vede aggiungersi all’alleato australiano il Giappone e l’India, l’altro gigante asiatico che dopo la caduta di Kabul in mani talebane si sente accerchiato da Paesi musulmani ostili e dall’altrettanto ostile vicino cinese.