Commento

L’Afghanistan e le regole del Grande Gioco

Puoi arrivare a Kabul e controllare il Paese, ma mai conquistarlo davvero. Succede sempre così, da secoli, con gli stessi errori fatti anche dagli americani

I talebani dentro al palazzo presidenziale (Keystone)
17 agosto 2021
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C’è un libro che spiega come sarebbe andata a finire in Afghanistan prima ancora che tutto finisse, prima ancora che tutto iniziasse: prima dell’avanzata dei talebani, rapida, inarrestabile, inevitabile. Prima ancora dell’arrivo degli americani, vent’anni fa, e della famosa e fumosa esportazione della democrazia. Quel libro - che diceva e sapeva già tutto - si chiama “Il Grande Gioco” ed è stato scritto nel 1990, non a caso, da un inglese, Peter Hopkirk. Non prevedeva il futuro, raccontava fatti di un secolo e mezzo prima.

Nel libro le carovane non erano fatte da pick up e carri armati, ma da muli e carri di legno; i ricognitori non erano droni telecomandati, ma esseri umani, esploratori, cartografi: disegnavano mappe - di luoghi e popoli - vedendo le cose da terra e non dall’alto. Se non li ammazzavano prima, scoprivano un sacco di segreti, dell’Afghanistan e di chi l’abitava, capivano come conquistare quella terra, mai però capivano come tenersela stretta.

In quelle terre, nell’Ottocento, russi e britannici si giocavano, appunto, i destini del mondo, gli uni preoccupati dell’avanzata degli altri: i primi temevano un’invasione dall’India, i secondi un’invasione dell’India, e quindi pensarono bene di andare a scannarsi in quel luogo inospitale chiamato Afghanistan, dove il territorio ti diceva di stare alla larga e ancor più i meccanismi tribali che governavano quella gente da sempre. Ci cascarono i britannici, i russi (poi sovietici), ora gli americani, con tutti noi occidentali dietro.


Miliziani talebani entrano trionfanti a Kabul (Keystone)

Investire altri di una missione che è solo tua - e che non gli appartiene - è il primo errore da non fare: fatto, allora come oggi. Il secondo è non capire che una bandiera non fa uno Stato, almeno non sempre, non lì, in un luogo più remoto di quel che sembra, in cui un capo-villaggio può pesare più di un ministro e una milizia locale più dell’intero esercito. I racconti di Hopkirk parlano di un Ottocento che, quando si entra nei dettagli, sembra il Cinquecento, se non preistoria, dove strategie e armi moderne - teoricamente invincibili - si scontrano con una forza superiore, non divinità, ma volontà condivisa di gruppi di persone troppo potenti e troppo legati tra loro per soccombere.

A nulla servirono accordi, ricchezze e promesse dei colonialisti, perché chi era obbligato a cambiare, si trovò - suo malgrado - l'invasore in casa, chi era propenso a farlo non trovò mai un sufficiente senso di protezione. Quando i soldati della regina Vittoria arrivarono a Kabul crearono un governo, ma non un consenso. Finì male, per loro, e per chi ci ha riprovato nei duecento anni a seguire.

Anche nel 2001 gli americani sono arrivati, hanno cacciato i talebani altrove, lontano dalla capitale, ma non dal potere, che in Afghanistan è ovunque, non solo al centro. Hanno armato, male, un esercito afghano che non credeva in se stesso e ancor meno negli americani. Erano tanti, ma fragili, perché combattevano una guerra che non era la loro. Si sono squagliati davanti a un nemico che però gli somiglia. Non è un caso che in molte città i talebani non abbiano dovuto nemmeno sparare un colpo, trovando accordi con capi locali che con lo straniero in casa nulla possono, ma che in realtà tutto possono. E tutti e tutto conoscono. All’esercito afghano mancavano le motivazioni, le ambizioni, le munizioni. All’esercito americano mancava uno che avesse capito le regole, pressoché immutabili, del “Grande Gioco”.