Il loro ricorso è stato respinto, ma i due giuristi hanno fatto bene a sottoporre al vaglio dei giudici di Mon Repos l'importante e delicata revisione normativa
Hanno perso. Ma il loro ricorso è stato senz’altro opportuno. Hanno dunque fatto bene i giuristi Martino Colombo e Filippo Contarini a sottoporre al vaglio del Tribunale federale la revisione della legge ticinese sulla polizia, voluta dal Consiglio di Stato e sottoscritta nel dicembre 2018 dalla maggioranza del Gran Consiglio dopo aver apportato al progetto governativo qualche correttivo garantista. Una riforma importante e delicata, che attribuisce alla Cantonale nuovi compiti e strumenti investigativi, anche invasivi, per garantire l’ordine pubblico e soprattutto per contrastare efficacemente la criminalità piccola e grande. Pur smontando le tesi dei ricorrenti, che chiedevano di cassare gran parte delle norme, lamentando la presunta violazione di diritti fondamentali, l’Alta Corte ha chiarito, nero su bianco, i limiti oltre i quali la polizia non può, non deve spingersi. Per questo, nelle quasi quaranta pagine della recente sentenza, i giudici di Mon Repos hanno richiamato fra l’altro il principio, fondamentale, di proporzionalità. Dall’esame della massima autorità giudiziaria elvetica, che ha respinto il ricorso e avallato così la revisione, la legge esce rafforzata. Gode di un’accresciuta legittimità.
E non è certo poca cosa alla luce del continuo (e necessario) dibattito, in Svizzera come in altri Paesi di collaudata democrazia, sui poteri accordati alle forze dell’ordine e sul rischio di abusi. Per restare alla nostra realtà, il tema è stato sollevato in vista della votazione popolare sulla legge federale riguardante le misure di polizia per la lotta al terrorismo, poi accolta. L’obiettivo è condiviso: la sicurezza della collettività. Raggiungerlo non è però impresa facile, poiché si tratta di trovare il giusto equilibrio tra azione repressiva e rispetto dei diritti fondamentali. Nel dibattito si è ora inserito di fatto il Tribunale federale, con la sua autorevolezza e il suo verdetto sulla riforma della normativa ticinese. Losanna afferma ad esempio che la ‘custodia di polizia’, fra le novità della riforma, quella maggiormente controversa, “non lede il diritto federale e la Costituzione”. Ma sostiene altresì che nella sua applicazione la polizia “dovrà attenersi alle spiegazioni fornite dal Consiglio di Stato”, nel senso che “il pericolo deve essere grave e imminente”.
La legge varata dal parlamento cantonale nel 2018 non contempla solo disposizioni in materia di ordine pubblico. Nel testo si parla anche di ‘osservazione preventiva’, di ‘indagine in incognito preventiva’, di ‘inchiesta mascherata preventiva’. Insomma di attività investigative, che la polizia può avviare a determinate condizioni, finalizzate pure a impedire la commissione di reati. D’altronde non ci si può illudere di lottare in maniera seria contro la delinquenza incrementando unicamente il numero di pattuglie sulle strade e nei centri urbani, contando sul loro effetto dissuasivo. Serve anche questo, ma non basta. Perché c’è una criminalità che agisce nell’ombra, che impiega mezzi tecnologici performanti per commettere truffe, che sfrutta le opportunità della rete per adescare (pensiamo alle vittime di pedofili), che si insinua nell’economia legale per riciclare denaro provento di reati. Per contenere il più possibile questi e altri illeciti la polizia deve poter disporre di strumenti di indagine adeguati. A maggior ragione in un cantone che non è immune, peraltro, alle infiltrazioni di stampo mafioso.