Il torneo itinerante nonostante le criticità ha regalato belle storie, su tutte il percorso di una selezione azzurra dal sapore di rinascita oltre il calcio
La bellezza di un viaggio si misura dalle emozioni che ti lascia dentro. E mai come quest’anno, l’Europeo è stato un gran girovagare. Fin troppo forse, tanto che l’idea all’apparenza accattivante di portare la kermesse in giro per il continente si è rivelata una sorta di autogol: complice anche la pandemia e le restrizioni (di viaggio, ma non solo), invece che accenderla, la natura itinerante dell’evento è sembrata spegnere la festa, che a livello di ambiente poco o niente ha avuto a che fare con i colorati ed elettrizzanti appuntamenti del passato. Il fatto di “spalmare” le partite – pure quelle dello stesso girone – in giro per l’Europa ha poi avuto un impatto (negativo) anche dal punto di vista sportivo, con alcune nazionali (Svizzera in primis) che in particolare nella fase a gironi tra un match e l’altro hanno dovuto percorrere migliaia di chilometri, magari per affrontare avversari che dal canto loro non si sono mai mossi dalla propria “base”. Sarà un caso che le quattro semifinaliste di questo Euro (Italia, Inghilterra, Spagna e Danimarca) facciano parte delle sei squadre (con Germania e Olanda) che hanno potuto giocare in casa tutte le sfide di gruppo? Forse no, ma a questo punto poco importa, anche perché il presidente dell’Uefa Ceferin ha già assicurato che il formato itinerante non verrà riproposto.
E perché, in fondo, siamo contenti di averlo potuto compiere questo viaggio per nulla scontato (sempre per colpa del Covid, che già ne aveva causato il rinvio di un anno, dal 2020 al 2021 appunto), che seppur con le sue criticità, di emozioni ce ne ha regalate tante. In campo come fuori, e forse mai come stavolta, i due ambiti s’intrecciano. Impossibile infatti non accomunare il successo sportivo di un’Italia di Mancini rinata dalle proprie ceneri (3 anni or sono uno dei momenti più bassi della gloriosa storia azzurra con la mancata qualificazione per i Mondiali 2018) alla storia recente di una delle nazioni colpite per prime e più brutalmente dalla crisi sanitaria. A dirla tutta, l’11 giugno all’Olimpico di Roma, in occasione della sfida tra i padroni di casa e la Turchia che ha aperto quello che in sostanza è stato il primo grande evento internazionale post-lockdown, qualcosa di speciale, di magico lo avevamo sentito. Nell’aria, assieme alla solita passione per lo sport e all’amore per una maglia sempre speciale per gli italiani, avevamo respirato la voglia di ripartire e di lasciarsi alle spalle un periodo maledettamente difficile di una città, di una nazione e di un popolo che portano ferite ancora aperte. Un grido di liberazione lanciato al cielo con quel primo inno di Mameli da brividi, cantato dai circa 10’000 italiani presenti allo stadio che son sembrati 100’000, ma che simbolicamente erano 60 milioni. Come la sua gente, per la sua gente, l’Italia di Mancini ha saputo soffrire, anche tanto dagli ottavi in poi (vittorie ai supplementari con l’Austria, ai rigori con Spagna e Inghilterra), ma alla fine ha regalato al suo popolo quella gioia di cui aveva tanto bisogno e che forse meritava più di chiunque altro.
Sì, per quanto avremmo sognato una Svizzera capace di stupire ancor di più – ma comunque da applausi e che a sua volta è finalmente riuscita a generare emozioni che hanno trasceso i confini del terreno di gioco – e per quanto siamo stati toccati da ciò che è capitato a Eriksen, l’emozione più grande che il lungo viaggio di Euro 2020 ci ha lasciato dentro è quella della rinascita di una squadra che rappresenta sì un Paese, ma in fondo simbolicamente anche un continente, un pianeta, tutti noi.