Regina del miglior varietà televisivo italiano, voce da 60 milioni di dischi venduti nel mondo, sex symbol. “Ma non ho mai ammiccato”, diceva.
Ma sì, generalizziamo. Per tutti gli italiani sui cinquanta è stata il primo amore dopo la mamma e prima della compagna di classe, oltre che il primo fenomeno mediatico dell’adolescenza. Una specie di Chiara Ferragni ante litteram, ma con molte, moltissime litteram in più. Per tutti gli italiani (sempre quelli sui cinquanta, ma anche per i più cresciutelli) è stata pure il primo sex symbol, fuoriuscito a fatica e quasi involontariamente da una televisione di Stato dalle mille censure; un sex symbol prodotto della femminilità e non della provocazione, un simbolo naturale, schietto, potente e mai volgare. “Non ho mai ammiccato”, ci teneva a specificare. E così fu, davvero. Ma del tema dell’ombelico, del ‘Tuca Tuca’ dapprima oscurato e poi riammesso in prima serata nella ‘Canzonissima’ del 1971 (dopo l’esecuzione con un rassicurante Alberto Sordi), e dell’icona gay, parliamo a pagina 2.
La morte di Raffaella Carrà, 78 anni da pochi giorni, piomba più inaspettata di altre illustri dipartite, complice una certa sana riservatezza che ha accompagnato in vita un’artista osannata tanto in patria che oltreoceano, e che la propria riservatezza l’ha difesa a denti stretti. “Ciao Raffaella. Questo, da te, non ce lo saremmo mai aspettato”, scrivono gli Elio e le Storie Tese, per i quali Raffaella fu molto più che una citazione vivente in una canzone, ‘Presidance©’, una volta ancora esempio dell’autoironia che è propria dei più grandi (lei, e anche un po' loro). La morte di Raffaella Carrà giunge all’inizio di un’estate italiana di nanniniana/bennatiana memoria, una bella stagione di riabilitazioni prettamente sportive, quelle di una nazione che almeno nello sport si ritrova unita, talentuosa, creativa e pure decisionista (calcisticamente parlando), in vetta alle classifiche mondiali (Måneskin parlando), alla ricerca di idoli più giovani (ora persino tennistici) per non dover rimpiangere sempre e soltanto i grandi di una certa età. L’addio a Raffaella Carrà si mette in coda a quelli di Milva in aprile, a Franco Battiato e Carla Fracci in maggio, cominciando da Gigi Proietti, novembre 2020, privazione non troppo distante da un 2021 decisamente, artisticamente, funesto.
Nel 1961, con intenti più sarcastici che realmente celebrativi – la reale riabilitazione del presentatore, “esempio vivente e trionfante del valore della mediocrità”, avvenne “per effetto boomerang”, così sostenne il presentatore stesso – Umberto Eco scriveva ‘Fenomenologia di Mike Bongiorno’, ritenuto il primo esempio di critica televisiva. Esiste anche una ‘Fenomenologia di Raffaella Carrà’ e si deve all’artista Francesco Vezzoli, che a Milano, nel settembre del 2017, volle riproporre integralmente tanto ‘Milleluci’ (1974) che ‘Ma che sera’ (1978), due esempi di varietà televisivo italiano all’interno di un evento complessivo denominato ‘Maratone TV 70’, nato per riabilitare un prodotto di altissima qualità a lungo screditato e oggi pienamente riabilitato e rimpianto. Raffaella Carrà è la storia di quel varietà, e insieme quella della musica, del costume, della moda e dello spettacolo in genere, lo spettacolo provato, mai improvvisato. Raffaella Carrà è anche uno spartiacque di onestà intellettuale e di rispetto per il pubblico: chi storse in naso per il melodrammatico ‘Caràmba! Che sorpresa’ non sapeva cosa in realtà sarebbe stata la vera tv del dolore, cui la stessa Carrà non si sarebbe mai prestata, né come conduttrice, né come ospite. Anche questo ce l’ha fatta amare. Sempre dopo la mamma, e prima della compagna di classe.