Lo scrittore israeliano: ‘L'odio è ovunque. In tv e nelle scuole, ma si può isolare. Netanyahu fa solo i suoi interessi’
Inizia e finisce sempre nello stesso modo. Senza finire mai davvero. ”In risposta ai missili di Hamas, che ci impone un doloroso tributo di sangue, noi israeliani abbattiamo edifici a Gaza per imporre il tributo anche al nemico e uccidiamo altri capi di Hamas che vengono subito sostituiti, uccidendo con loro tanti altri. Il mondo s’indigna per la morte di civili e bambini palestinesi, noi ribattiamo al mondo che è ipocrita e che con noi usa due pesi e due misure, la Corte dell’Aia pretende un’indagine, noi pretendiamo che la Corte prima ammetta di essere antisemita e alla fine, quando tutto finisce, ricominciamo tutto daccapo”. Questo circolo vizioso è solo uno dei tanti modi in cui Keret, 53 anni, prova a spiegare l’assurdo avvitarsi della situazione israelo-palestinese. Figlio di due scampati all’Olocausto, di doppia nazionalità polacca e israeliana, lo scrittore ha avuto successo in tutto il mondo con i suoi racconti brevi, spesso talmente surreali da raccontare la realtà meglio di un documentario. Da regista e sceneggiatore è stato premiato al Sundance Festival e con il Caméra d’Or a Cannes, insegna in due università israeliane e in ogni ambito prova a raccontare il conflitto spogliandosi il più possibile da ogni tipo di pregiudizio.
Lo scrittore israeliano Etgar Keret, 53 anni
Keret, com’é la vita in questi giorni a Tel Aviv, come si vive dentro a una guerra?
A essere onesti, dopo tante guerre ci si abitua a svegliarsi nel cuore della notte per un allarme missilistico o un’esplosione. Ma qui non è Gaza, dove non ci sono allarmi adeguati, inoltre il sistema Iron Dome neutralizza la maggior parte dei razzi rendendo quasi inesistente il rischio di essere colpiti. Quindi il cervello capisce molto rapidamente che il pericolo non è poi così grande, ma lo stomaco a volte no. E così ti trovi terrorizzato anche se sai che la tua paura non è razionale.
Trovare un modo di coesistere sembra da sempre il vero problema in Israele.
La società israeliana, specialmente dopo dodici anni consecutivi sotto il regime di Netanyahu è molto fragile e tribale. Nella vita di tutti i giorni c’è coesistenza tra ebrei e arabo-israeliani, ebrei secolarizzati e ultraortodossi. Ma è un equilibrio complicato. In molti luoghi di lavoro: ospedali, farmacie, cantieri, si possono vedere ebrei secolarizzati, ebrei religiosi e arabi israeliani che lavorano insieme. Ma in tempi come questi si avverte che questo senso di coesistenza nasconde in realtà una paura enorme l’uno dell’altro. Gli ebrei non capiscono o non accettano la complessa identità arabo-israeliana che si identifica con la sofferenza dei palestinesi a Gaza, vedono questa identificazione come un “sostegno ai nemici del paese” e la scambiano per slealtà. In tempi normali sia gli ebrei che gli arabi si applicano duramente per nascondere la loro diversa visione, ma nel momento in cui inizia la guerra questo diventa impossibile e tutti i demoni e le paure vengono risvegliati.
Suo figlio ha 15 anni, come gli spiega la situazione? E come la spiega a se stesso?
Mio figlio è giovane, ma è molto critico e politicamente consapevole. Ci ha chiesto di non guardare certi commentatori perché, secondo lui, promuovono solo paura e odio. Nel momento in cui abbiamo iniziato a farlo e siamo passati a ottenere le nostre informazioni dal web e non da sudati commentatori televisivi semi-isterici che continuano a chiedere di “dare al nemico una lezione che non dimenticherà", l’intera famiglia è più a suo agio. Le tv, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, sembra non vogliano lasciarti il tempo di pensare con la tua testa.
Come viene raccontato il conflitto dai media locali? Perfino in Europa le posizioni sono molto polarizzate.
Qui c’è un senso di isteria continuo negli studi tv. La maggior parte dei commentatori sono fortemente patriottici e durante la rivolta degli arabi nella città miste in molti si sono affrettati a fare paragoni con i pogrom e la Notte dei Cristalli. Nei loro esempi dipingono una minoranza ebrea sotto attacco, dimenticando che questo è uno stato ebraico con una sua polizia e un suo esercito. Nelle tv israeliane vedi pochissime immagini di Gaza. E se le vedi sono palazzi che crollano, mai morti e feriti.
In Israele si è appena votato. Lo si fa di continuo negli ultimi anni, ma la situazione non cambia. Come se ne esce? Tra i possibili scenari c’è anche l’estrema destra alleata con gli arabi. E visto da qui sembra un controsenso.
La grande divisione nella politica israeliana non è tra destra e sinistra, ma tra sostenitori e oppositori di Bibi (Netanyahu, ndr). La coalizione Bibi è formata da partiti che, anche se non lo dicono apertamente, ritengono che ci sia qualcosa di più importante delle leggi del Paese: ultraortodossi che credono che la parola di Dio e i loro rabbini siano più importante della legge (anche durante il lockdown alcuni rabbini hanno deciso di tenere aperte le loro scuole), coloni religiosi (che credono che la santità della terra, donataci da Dio, sia più importante delle leggi dello Stato) e il partito di Netanyhu, il Likud, che funge più da culto, vedendo in Bibi qualcuno che è più vicino a un re che a un rappresentante democraticamente eletto (e che quindi combatte il sistema giudiziario che vuole processarlo per aver ricevuto tangenti). Gli oppositori di Bibi vanno dall’estrema sinistra, compresi i comunisti arabi, a Tikva Hadasha, un partito di estrema destra che combatte Netanyahu in quanto istigatore corrotto, ma che, allo stesso tempo, è molto nazionalista. Questo divario crea gruppi che hanno molto poco in comune tranne che su un argomento: bisogna o non bisogna processare Bibi. Se questa è l’unica cosa che ti unisce, è chiaro che formare un governo è molto difficile.
Quanto è importante il ruolo di Netanyahu in questo conflitto? Sembra aver capito che l’unico modo di rimanere in sella ed evitare il processo sia tenere surriscalato l’ambiente a qualunque costo.
Certo. Negli ultimi anni tutte le decisioni prese da Netanyahu hanno a che fare con il suo processo. Per due anni il suo governo non ha nominato un capo della polizia per indebolire l’organizzazione che investigava su di lui. In ogni trattativa governativa ha insistito per assegnare al suo partito il ministero della Giustizia. Gli interessa solo quello: l’economia, il sistema sanitario, le strategia di difesa di Israele sono tutte armi usate a quello scopo.
Propaganda elettorale pro-Netanyahu durante le elezioni (Keystone)
Lei insegna all’università. Parla del conflitto con i suoi studenti?
A causa dei bombardamenti ora facciamo lezione su Zoom. Ho studenti sia ebrei che arabi e visto che io insegno scrittura, ho facilmente accesso, tramite i loro scritti, alle loro sensazioni. Colgo molta frustrazione e paura. Scrivere insieme, confrontarsi, è un modo per capirsi meglio l’uno con l’altro.
Vede un cambiamento nei giovani? Negli Usa e in Sudamerica stanno contribuendo a una nuova stagione di diritti civili. In Europa spingono sull’ecologia.
In Israele ho avuto questa sensazione durante il periodo Covid, quando ogni settimana diecimila persone o più, per lo più giovani, uscivano in strada per manifestare contro Bibi, chiedendogli di dimettersi. Purtroppo, quando si tratta del conflitto palestinese, le manifestazioni sono molto meno affollate. Molto a causa del fatto che la destra delegittima queste proteste, definendole "traditrici" e "criminali". È quasi una routine che la destra attacchi i sostenitori di sinistra. E la polizia non aiuta. In questo modo, spaventano chi deve scendere in piazza e diventa difficile mobilitare tante persone.
Jovan Divjak, il generale serbo che lasciò l’armata jugoslava per difendere Sarajevo assediata, diceva: “La scuola è la cosa più importante, ma a volte anche la più pericolosa. Nell’ex Jugoslavia ti insegnano a odiare il tuo vicino, e se cresci con quella mentalità poi è difficile cambiarla. Lo stesso vale per la famiglia, che è una cuccia confortevole e una trappola, perché se tutto il bene proviene dalla famiglia, spesso anche il male proviene dalla famiglia”.
Sono d’accordo. Le radici del nostro conflitto vengono dal fatto che sia il sistema educativo israeliano che quello palestinese negano la possibilità di un’altra narrazione. Questo rifiuto netto rende impossibile il dialogo e qualsiasi futura negoziazione, perché ti hanno insegnato che tu hai completamente ragione e gli altri sono tutti violenti e razzisti. Si tira una riga sulla mappa e si dice “di qua i buoni e di là i cattivi”. E finisce lì.
Non trova che in questo periodo storico, da Trump a Bolsonaro, passando per Erdogan, ci sia una fascinazione per uomini autoritari con risposte troppo semplici per domande complesse?
Alla base del razzismo e del fascismo c’è sempre la paura. Viviamo un’era di instabilità e cambiamenti costanti in cui siamo bombardati di continuo da informazioni su potenziali minacce in agguato; riscaldamento globale, intelligenza artificiale, ingegneria genetica. In questa epoca in cui tutto sembra essere possibile e nulla sembra essere stabile è molto più facile spaventare le persone e raccoglierle in un gruppo che offrirà loro un senso di identità e di sicurezza collettiva in cambio dell’odio nei confronti di altre religioni, etnie e nazionalità. Se nel secondo dopoguerra c’era questa forte sensazione di apertura e di persone che andavano oltre il concetto tribale "noi-voi", ora sembra che stiamo entrando in un’epoca in cui ci separiamo in gruppi sempre più piccoli che si definiscono solo trovando un nemico comune o una minaccia comune. Ma non può, non deve essere questa la soluzione”.
Una marcia di inizio maggio, poco prima dell'ultima guerra (Keystone)