Certe candidature improbabili riflettono difficoltà di reclutamento, ma anche pericolose affinità comunicative col vertice di certi partiti. Un’analisi
Il mondo è bello perché è vario, le liste dei candidati alle elezioni comunali pure. Solo che in alcuni casi si tratta di varietà un po’ indigeste: c’è la candidata che inneggia al nazismo, quello che difende la dittatura nordcoreana, il ruspantello che nonostante gli ovvi limiti grammaticali riesce a elogiare nello stesso tempo Hitler, Mussolini e Stalin. Poi naturalmente c’è un gruppo assortito di no-mask, no-vax, no-5G, difensori della ‘medicina’ quantica e di discipline altrettanto bislacche. Certe candidature paiono sfiorare la circonvenzione d’incapace, per altre viene da pensare che certi pasticci nel reclutamento nascano da pericolose affinità ideologiche. Cosa c’è alla radice del problema? «Innanzitutto va detto che diventa sempre più difficile conciliare lavoro e politica di milizia, per cui si fa sempre più fatica a trovare candidati all’altezza», osserva Andrea Pilotti, politologo e responsabile di ricerca presso l’Osservatorio della vita politica regionale all’Università di Losanna. Che aggiunge: «A scoraggiare molti è anche il clima talvolta preponderante di antipolitica, tale che anche chi si impegna davvero non ritiene riconosciuti dalla comunità gli sforzi profusi per adempiere al proprio mandato elettivo, anzi si trova esposto a critiche, strumentalizzazioni e attacchi ad alzo zero». E se è vero che le zuffe all’ombra del campanile si tramandano da secoli, «il fenomeno è stato esasperato e amplificato dalle dinamiche della comunicazione contemporanea e dai social network». Sicché «vediamo un numero crescente di politici locali in Svizzera che dopo pochi mesi di lavoro iniziano a chiedersi ‘ma chi me lo fa fare?’ e rinunciano già dopo il primo mandato».
Ecco allora che entra in scena una compagnia di giro fatta di personaggi improbabili se non addirittura pericolosi. Viene però da chiedersi perché i partiti non facciano da filtro. Segno che il centro non dialoga con le sezioni locali? «I partiti sono sempre più in difficoltà nell’assolvere un compito di selezione che pure gli spetta, se vogliono essere garanti delle regole e dei valori comunitari fondamentali per la vita democratica», osserva Pilotti. «D’altronde, il concetto stesso di disciplina di partito è stato spesso screditato nel corso degli ultimi decenni, anzitutto da quei movimenti che proprio ai partiti storici si opponevano in nome di una politica più individualista e slegata da logiche di partito considerate superate. A quel punto gli stessi partiti – accusati di centralismo e censura – hanno scelto di allentare in qualche modo la loro presa sui candidati incoraggiando anche una maggiore iniziativa personale». Il risultato: «In parte, questo confronto ha permesso di superare vecchie ingessature e trovare strade di rinnovamento. Ma ha anche portato a eccessi nel senso contrario, quella della provocazione e di uno stile sguaiato e offensivo».
Il cambiamento degli strumenti di propaganda e comunicazione ha fatto il resto: «Una volta il quotidiano di partito dettava la linea, mentre gli esponenti più ‘periferici’ e meno ‘allineati’ avevano poche tribune: spesso la loro voce arrivava poco lontano dai ritrovi pubblici nei quali potevano esprimere le opinioni più avventate». Oggi «anche senza scomodare Umberto Eco, bisogna pur ammettere che un candidato locale può fare campagna con un tweet o un post su Facebook, ottenendo grande visibilità soprattutto nei casi più controversi. Così, alla fine è il partito o il movimento a subire le conseguenze della scarsa alfabetizzazione nell’uso dei social network».
Chi spada ferisce di spada perisce, verrebbe da dire, dato che un uso spregiudicato della comunicazione è spesso stato sposato anche dai vertici di certi partiti. Se ad esempio si pubblicano manifesti con pecore nere scacciate dalla bandiera e mele mangiate da vermi stranieri, riesce difficile stupirsi del fatto che a quel partito si avvicini anche chi quelle immagini le legge con gli occhi d’un secolo fa. «È chiaro che certi nodi prima o poi vengono al pettine», commenta Pilotti; «certe scelte comunicative provocatorie, per quanto efficaci nell’immediato, rischiano di attrarre talvolta anche personaggi poco presentabili e di danneggiare l’immagine del partito o del movimento nel lungo periodo».
L’Associazione dei comuni svizzeri è consapevole del fatto che a volte la politica di milizia annaspa, e infatti cerca da anni di trovare soluzioni e nel 2019 ha organizzato l’Anno del lavoro di milizia, un’occasione per facilitare lo scambio di idee con tutti gli attori politici, economici e sociali disseminati sul territorio. Molte le proposte e gli spunti, divenuti in alcuni casi proposte legislative in discussione. Come l’idea di riconoscere le attività svolte dai politici di milizia come valide per vari percorsi di formazione, ad esempio i master in gestione e i certificati di studi avanzati. La sfida è quella di reclutare nuove leve e sensibilizzare anche i datori di lavoro circa l’importanza della partecipazione politica e della sua conciliabilità con l’attività professionale. Eppure i problemi ci sono ancora. Troppi per garantire in futuro un funzionamento dignitoso degli esecutivi e dei legislativi locali? «Bisogna fare attenzione a non generalizzare», obietta Felice Dafond, presidente dell’Associazione dei comuni ticinesi. «È vero che ci sono comuni e anni nei quali risulta difficile per i partiti trovare il giusto numero di candidati all’altezza del ruolo, ma in questo entrano in gioco fattori piuttosto eterogenei».
Conta ad esempio, almeno in parte, la dimensione del territorio amministrato. «Si nota spesso qualche difficoltà in più nei centri dove l’autorità comunale è percepita come più distante, ad esempio in seguito ad aggregazioni», osserva Dafond, «però non si può parlare di una tendenza univoca. Nei comuni più grandi, ad esempio, ad attrarre le candidature controbilanciando questa distanza è anche la promessa di prestigio e visibilità. In quelli più piccoli, al contrario, la varietà di compiti che spettano ad esempio a un municipale può essere così onerosa da scoraggiare molti».
In un mondo dove anche la politica pare farsi sempre più complessa, viene da chiedersi se la soluzione di milizia non stia mostrando la corda. Piano, sembra suggerire Dafond: «La politica di milizia garantisce una partecipazione ricca e variegata alla vita politica locale. Ciò non toglie che vi sia un problema dovuto alla conciliazione tra questo impegno e quello lavorativo. Le soluzioni tentate sono state numerose, anche a seconda delle diverse realtà: alcuni comuni, specie alcuni tra quelli più grandi e più ricchi in Svizzera, puntano ad esempio su retribuzioni generose per i municipali. Ciò non toglie che sia impensabile fare politica solo per il gettone». D’altronde, è ovvio che solo una parte degli aspiranti politici è mosso da nobili ideali. «Ogni candidato ha le sue motivazioni», osserva senza farsi troppe illusioni Dafond: «Ci sono quelli responsabili e animati da alti ideali e spirito di servizio, e poi c’è chi pensa al suo tornaconto o magari si butta nella mischia solo per farsi vedere e seminare zizzania».