Un romagnolo trapiantato in Ticino scrive due pensierini su quel mondo di liscio e balere, che suona sempre come un bel ritorno
C’è un Casadei in sé e un Casadei in me. Sul Casadei in sé non mi esprimo, perché di musica non me ne intendo. Il Casadei in me invece si intreccia col ricordo di mio nonno, completo verde-marron e mocassino da professionista, insieme elegante e démodé quando montava sulla sua Lancia Beta per andare in balera. Sugli altri sedili salivano gli amici della Casa del Popolo e della lotta partigiana, sul cruscotto c’erano forse una copia dell’Unità, un pacchetto di Mundial e il barattolo delle pillole per l’angina, ecstasy decisiva per non perdere neanche una mazurka. Un mondo fatto di rasature mentolate e calze di nylon, forme generose e valzerini, l’orchestra in giacca rossa con la fisarmonica che ondeggia e che ammicca. Le voci cantano storie improbabili strascicando le esse, leggende di tedesche strappacuore e mare d’inverno.
Poi uno cresce, certe cose se le dimentica, il profumo del dopobarba svanisce, i nonni muoiono. Si diventa adolescenti, ovvero teste di cazzo, e il liscio lo si rifiuta come una cianfrusaglia ridicola: sentiamo i cantautori e il punk noi, mica lo zumpappà. “Corre la locomotiva” e “blitzkrieg bop”, non “la bella straniera mi è rimasta nel cuore”, “nella sabbia è nato un fiore nel mio cuore un grande amore”, “vorrei tornare dalla mia bella al casolare”. Al massimo va bene il folk, senza sapere che è folk anche il liscio, dipende dalle orecchie che usi per ascoltarlo. Ricordo il fastidio, in altre regioni e Paesi, nel venir sempre associato con Romagna Mia, senza pensare che togliendo quella ci conoscono quasi solo per Mussolini, parallelo assai meno lusinghiero.
Mi ci sono voluti anni per riconciliarmi col liscio e con tutto quel che ha incarnato Casadei, con quella faccia lì e i modi allegri d’una Romagna un po’ dolce un po’ “sburona”. Un posto dove il sangiovese si beve in bicchieri bassi che pesano più del tavolo, ma quando si va a ballare ci si lecca da damerini, perché siamo gente di campagna ma anche di mare, alle turiste diciamo “froilàin” e “alle zusammen”, insomma non siamo mica “venuti giù con la piena”.
Fondamentale, nel mio percorso di recupero e disintossicazione dalle velleità adolescenziali, è stato il mio approdo al Bagno Zara di Cesenatico, coi suoi ombrelloni verdi e gialli e una fedeltà inamovibile alla linea del liscio. Quando si fa sera, il bagno si svuota un po’ e allora vai con lo stereo a palla. Parte Raoul, uno che basta pronunciarne il nome per sentire la polvere e la ghiaia su un viale di campagna. Le ombre si allungano, la passerella – verdegialla anche quella – punta verso il mare. Ezio e l’Ornella, che non sono ragazzini ma in quel momento non lo diresti, spazzano via la sabbia come se con quella scopa ci stessero ballando.
Potrebbe sembrare un piacere da fighetto in vacanza, il divertissement di chi certe cose le sa vedere solo con le lenti dell’ironia e dello snobismo. Son passato anche da lì, ma via quella buccia e si arriva a un altro modo di sentire il liscio, che fa tutt’uno col semplice fatto di rivedere volti familiari e ritornare a casa: è tutta una questione di tenerezza, mi sa. Poi d’accordo, Casadei non sarà Strauss. Ma a noi “pataca” va bene anche così.