Sting, Elton, Ed Sheeran, e anche il pro-Brexit Roger Daltrey (The Who) contro i visti per suonare in Europa. Ne parliamo con due inglesi del settore.
Il rock è fermo in Ticino, che non è la patria del rock. Ma il rock non se la passa molto meglio nemmeno in patria. Questione di punti di vista. Punto di vista inglese n.1: “Sono nauseato dalla Brexit. Io sono un europeo, non sono uno stupido colonialista, imperialista, idiota inglese qualsiasi. Mi vergogno per quanto ha fatto la mia nazione. Ne ho abbastanza dei politici, soprattutto dei politici britannici”. Punto di vista inglese n.2: “Ma cos’avrebbe a che fare la Brexit con il business della musica rock? Come se prima non avessimo mai viaggiato in tour nella f****** Europa. L’Europa è la mafia, è come essere governati dalla FIFA”. Gli eventi cambiano così rapidamente che l’europeo e pressoché londinese Elton John, che da Verona (anno 2019) s’indignava per quanto deciso in patria, e il pienamente londinese Roger Daltrey, voce e asterischi degli Who, che ai microfoni di Sky News, nello stesso anno, si proclamava orgogliosamente a favore della Brexit, si ritrovano uniti in una stessa lettera aperta in difesa della categoria, pubblicata dal Times.
Il documento, pubblicato dal ‘Times ’, è firmato da un centinaio di artisti, tra cui alcuni Cavalieri della Regina come Sir Elton Hercules John o come Sir Bob Geldof (quest’ultimo più per meriti umanitari che musicali) e altri meno titolati come Sting, Ed Sheeran, Judith Weir, Midge Ure, Robert Plant, Peter Gabriel, vari Bryan (Adams, Eno, May), Dave Stewart, Gary Newman, Jim Kerr dei Simple Minds, gli Iron Maiden e i Radiohead tutti, Liam Gallagher senza Oasis, Mark King senza Level 42, Mick Hucknell dei Simply Red, altri Queen viventi come Roger Taylor, e poi Joss Stone, Rag’n’Bone Man, Roger Waters senza Pink Floyd, il cofondatore degli stessi Nick Mason. L’oggetto del contendere: tra i molti problemi già causati a più categorie professionali, la fine della libera circolazione tra il continente e il Regno Unito obbligherebbe i musicisti britannici a procurarsi visti individuali (visa) prima di mettere piede in uno qualsiasi degli Stati dell’Unione Europea. Il non poter viaggiare più liberamente per portare il proprio lavoro oltre i confini del Regno Unito è una scelta “vergognosa”, si legge nel documento pubblicato dal ‘Times ’.
A inizio settimana, Caroline Dineage, Minister of State for Digital and Culture in the Department for Digital, Culture, Media and Sport (per dirla in breve, il ministro della cultura inglese), comunicava che l’offerta “assai ampia” dell’Unione Europea non sarebbe stata compatibile – si cita testualmente dalla Bbc – “con l’impegno del manifesto del governo”, e cioè il “riprendere il controllo dei nostri confini”. Dineage rassicurava comunque che l’Unione Europea era disposta “a prendere in considerazione la proposte del Regno Unito al fine di raggiungere un accordo per i musicisti”. Risposta dei musicisti, via Incorporated Society of Musicians, l’ente professionale di musicisti del Regno Unito: “La realtà è che musicisti, ballerini, attori e il relativo staff di supporto britannici sono stati vergognosamente traditi dal loro governo”; “L’accordo concluso con l’UE ha una falla laddove dovrebbe stare la promessa di libera circolazione per i musicisti”; “Tutti coloro che vorranno andare in tour in Europa avranno d’ora in poi bisogno di costosi permessi di lavoro e una montagna di documenti per l’attrezzatura”. L’associazione chiede al governo di “negoziare viaggi senza scartoffie in Europa per gli artisti britannici e le loro attrezzature”. La richiesta è, naturalmente, quella di un accordo reciproco: per il bene di chi da Londra va a suonare a Roma, citando a caso tra capitali, e “per il bene dei fan britannici che desiderano vedere artisti europei nel Regno Unito e nei luoghi britannici che desiderano ospitarli”.
Inserendo la categoria dei musicisti in una più generale regolamentazione dei viaggi d’affari temporanei, il governo britannico giura di avere avanzato proposte anche “ambiziose” all’Unione Europea, che si sarebbe defilata. L’Unione Europea risponde che se mai qualcuno s’è defilato, quella è la Gran Bretagna. E che se qualcuno ha avanzato proposte di mobilità ambiziose, quella è l’Unione Europea. Nel batti e ribatti tipicamente italiano, ‘The Independent’ accusa Downing Street di avere rifiutato la proposta; Downing Street accusa il quotidiano di dire ‘bullshits ’ (stupidate, edulcorando). Mentre le responsabilità si chiariscono e un mercato da billions of pounds è fermo per altri ben noti motivi e difficilmente manderà giù ulteriori restrizioni, la petizione che chiede l’esenzione dai visa per artisti e professionisti della musica (senza i secondi, i primi suonerebbero in streaming per il resto della propria vita) viaggia verso le 300mila firme.
Angela Curiello
«Ho iniziato come tramite di compagnie italiane, portando artisti internazionali in Italia e artisti italiani all’estero». Ora, a Londra, Angela Curiello lavora per artisti di qualsiasi calibro all’interno di una delle due big internazionali, la Aeg Presents, colosso dell’intrattenimento live che produce e promuove concerti, eventi musicali, festival anche jazz, dal nord dell’America all’Europa, all’Asia. I suoi uffici supportano gli spostamenti di Taylor Swift, dello Zio Elton, di Paul McCartney, degli Stones, di Ed Sheeran e anche quelli di Katy Perry e Justin Bieber, l’ultimo dei grandi eventi curati prima che il virus se la prendesse anche con il pop. Tra un tour e l’altro, Angela gestisce anche una venue a Londra, l’Indigo, «la sorellina dell’O2», dove l’O2 è l’O2 Arena, attuale tempio dei concerti indoor (e anche dei Masters di tennis).
La Brexit, per Angela, è l’ultimo dei problemi. Nel senso che arriva dopo il Covid. «Ho visto migliaia di concerti cancellati, rinviati più volte», racconta. «Si riponeva qualche speranza nella primavera 2021, ma sappiamo che nulla accadrà». E per una nazione in cui la musica muove miliardi di sterline, che sia l’O2 o l’ultimo dei pub in cui si suona l’ennesima versione di ‘Wonderwall ’, lo stop è uno shock: «L’unica misura seria sono stati i fondi andati a sostenere aziende, artisti e strutture che hanno fatto la differenza in Gran Bretagna. Ma si parla di mesi fa. Qualcosa ha fatto il furlough (cassa integrazione, ndr), ma anche in questo caso l’ultimo stipendio arriverà ad aprile e poi non si sa cosa succederà». Alle prese con problemi che sono (o sono stati) anche ticinesi – «Ridurre, per garantire il distanziamento sociale, un locale di 2’800 persone come l’Indigo a 400 persone rende impossibile solo aprirlo» – il futuro, quando arriverà, dovrà anche fare i conti con gli impicci della Brexit: «Le cose non sono chiare. Se l’accordo è stato rifiutato dalla Gran Bretagna, temo si tratti di orgoglio. Ma è solo una mia idea. Si dice che prenderemo accordi con le singole nazioni, ma preoccupano i costi aggiuntivi. Non tanto per i più grandi, ma per gli artisti più piccoli da portare in Europa per farli conoscere». Tanto per girare il dito nella piaga: «Ieri in parlamento si doveva decidere di questo». E il parlamento era vuoto
Parafrasando il luogo comune, tutto il mondo è Ticino: «Purtroppo sì, è come se si fossero dimenticati che l’uomo è anche musica, scrittura, dialogo. Fa specie vedere un settore che porta così tanti soldi a livello di Pil completamente ignorato». Premesso che Sting potrebbe pure restarsene a Figline Val d’Arno a produrre vino, conforta il muoversi dei grandi nomi in modo compatto. Incluso il pro-Brexit Roger Daltrey, che ripropone il classico degli Who ‘Won’t Get Fooled Again’, non ci fregherete di nuovo, che sa di dietrofront: «Io credo che molti pro-Brexit di settori diversi si stiano rendendo conto di come questa sia un’enorme cavolata, di quanti problemi una decisione come questa porterà. Un accordo approssimativo, non discusso nei dettagli. Tutti hanno problemi, anche i pescatori che non possono portare il pescato in Europa». E il Covid, scegliendo un apparecchio a caso dal palco, fa da amplificatore: «Nemmeno le ambasciate sanno cosa dire. Non c’è chiarezza per noi e nemmeno per l’artista, che soffre il non potersi esibire».
Luca Fiore
Gli artisti, a proposito. Primo italiano a vincere il Mayor of London’s ‘Gigs ’, la competizione di musica più grande del Regno Unito, ‘Miglior musicista di strada dell’anno’ per il London Evening Standard e altre cose – dalla Bbc alla Rai, fino al singolo ‘Ithaca’ con docu-video sul lockdown della capitale inglese –, Luca Fiore è un singer songwriter italiano naturalizzato britannico che di casa sta proprio a Londra, metropoli che ha – dice Luca – «sempre orgogliosamente difeso il suo titolo di città dinamica, sia nei concerti più grossi che in quelli ‘comuni ’, per chi come me fa il musicista di professione qui da otto anni e ha sempre vissuto in un’abbondanza di posti in cui suonare». Almeno prima del virus. «Se vogliamo riferirci alla domanda vecchia come il mondo “Ma a parte il musicista, cosa fai di lavoro? ”, nel Regno Unito esistono istituzioni consolidatissime di tutela dei musicisti per cui già a inizio pandemia si è subito potuto attingere a un fondo come Help Musicians, un’associazione che si avvicina molto all’idea di sindacato. In generale, l’aiuto per i liberi professionisti del Regno Unito è sempre stato molto chiaro, tecnicamente parlando»
Venendo alla Brexit, però, le cose cambiano: «I firmatari sono nomi enormi, band che adoro come Iron Maiden e Who, lo stesso Ed Sheeran. Aspettando di vedere l’evoluzione, il fatto che artisti così grossi abbiano deciso di metterci la faccia, in questo rimbalzarsi di responsabilità, fa pensare che a complicare le cose sia stato il Regno Unito». Mettici anche Tommy (Roger Daltrey, protagonista dell’omonima opera rock): «Se un pro-Brexit come lui si espone così, prendendosi anche le accuse di essere un ipocrita, vuol dire che forse abbiamo sparato un po’ troppo in alto». In questa «gara a pestarsi i piedi tra Unione Europea e Regno Unito», come negli ultimi mesi di trattative, in questo contendere in cui «la musica viene strumentalizzata, ingigantendo per questioni di schieramento un problema che così grande non sembra», una speranza c’è. Ed è che il fatturato annuo nel mondo della musica nel Regno Unito, secondo Luca, è così grande che una soluzione si troverà per forza. Anche se «rimane questo amaro in bocca per una transition senza problemi, e invece ci si trova a dover battagliare per preservare le condizioni di base per poter fare il nostro lavoro». Perché la musica «non è solo Ed Sheeran, ma anche dell’autista del tir che porta l’attrezzatura per il suo concerto. Sarebbe un vero peccato se questa diatriba diventasse irrisolvibile per mere questioni di orgoglio politico».