Sarà meglio ricordarsi di quanto i suoi emuli dalle nostre parti ne abbiano sfruttato l’immagine per spingere l’agenda sovranista. E di come va a finire
“La vittoria di Trump - non ci speravo più! - è la rivolta della classe media, della ‘gente comune’, contro le élite, i ‘poteri forti’, la stampa di regime, gli spalancatori di frontiere, gli intellettualini con la puzza sotto il naso. Come la Brexit. Come il 9 febbraio” (Lorenzo Quadri). “La vittoria della classe media contro l'establishment e contro la globalizzazione!” “Il 2016 è l’anno della vittoria della gente contro i falsi buonisti, i moralisti, i sondaggisti e i media mainstream” (Boris Bignasca). “Per Hillary hanno votato le donne i latinos i gay il black people i cattolici la comunità ebraica; per Trump hanno votato gli americani” (Tuto Rossi). “In politica tutto è possibile! Gli ambienti economici, le lobby e i poteri forti americani sonoramente sconfitti dall'uragano Trump” (Piero Marchesi). Infine, il mio preferito: “Ci siamo, oggi Trump inizia. E tutto lascia indicare che sarà una giornata di guerriglia, senza precedenti. Organizzata dall’estrema sinistra per tentare di condizionare dall’inizio la sua presidenza”. (Marcello Foa).
Quattro anni fa, la destra nostrana salutò così l’elezione di Donald Trump alla presidenza americana. È vero che col senno di poi sono tutti professori, ma in questo caso bastava anche il senno di prima: parliamo dello stesso tizio che già raccontava compiaciuto quanto gli piacesse “afferrare le donne per (ci siamo capiti)”, lo stesso sbruffone che raccontava bufale su Obama musulmano e sul legame tra vaccini e autismo. In ogni caso, i vichinghi ticinesi hanno continuato a difenderlo fino all’ultimo. Ad esempio screditando in ogni modo i movimenti per i diritti civili come ‘Black Lives Matter’, magari col pretesto della violenza sui bianchi o delle statue abbattute. Oppure guardando con occhi sognanti il famoso muro col Messico, del quale non si erge che qualche moncone. Il giorno dopo le elezioni, lo stesso Marchesi decantava ancora in tuttomaiuscolo “uno schiaffo al mainstream” e prendeva di petto l’ostruzionismo di “sondaggisti”, media”, “vip” e “stabilishment” (sic).
È vero che negli ultimi giorni, con quel che è successo a Capitol Hill, in certe plaghe della politica locale s’è fatto un gran silenzio. Il povero Paolo Pamini è rimasto solo a minimizzare sui social la portata dell’assalto e a seminare dubbi sulla regolarità del voto di novembre (e dire che all’inizio non era certo tra i trumpiani più entusiasti). Gli altri si sono allontanati fischiettando con affettata nonchalance, l’aria di quelli che passavano di lì per caso.
Invece l’uso di Trump come specchio ustorio da puntare contro gli “intellettualini” e lo “stabilishment” non è mai stato un caso, né si può ascrivere a mera ignoranza. Come con la Brexit – finita com’è finita, anche quella – si sono deliberatamente utilizzati i grandi eventi internazionali per spingere un’agenda che presenta inquietanti somiglianze di famiglia: le retrotopie sulle radici, sull’identità, la demonizzazione dello straniero, l’isolazionismo, l’antielitismo come forma di sdoganamento della cialtroneria. Nella tentazione non sono caduti solo certi politici e fogli di partito, ma anche quei media che fino all’altro giorno ritenevano quantomeno indifferente l’esito del confronto tra Trump e Biden, giudicato “statalista” (chissà che film stavano guardando).
Ora quella destra si libererà di Trump, e si metterà a cercare un nuovo idolo da portare in processione. Forse sarà meno facile di una volta, dato che anche Matteo Salvini è in ritirata e la grande galassia sovranista appare un po’ appannata. Soprattutto, si spera che stavolta qualcuno si ricordi di come va a finire.