Dopo ventritré anni, il presidente della società intende lasciare la carica: 'Giusto un ricambio generazionale'. Al suo posto, forse, Rupen Nacaroglu
La fine di un'epoca. Paolo Poretti verso le dimissioni. Dopo ventitré anni alla sua guida, il presidente della Società dei commercianti di Lugano (Scl) è intenzionato a lasciare la carica. Dal profilo moderato, perbene e istituzionale, ha caratterizzato una lunga epoca di profondi cambiamenti. La voce gira sempre più insistente da settimane, come anche quella del suo probabile successore: l'avvocato e consigliere comunale del Partito liberale-radicale (Plr) Rupen Nacaroglu. Il passaggio di consegne dovrebbe avvenire il 15 settembre, quando si terrà l'assemblea della Scl, tuttavia secondo nostre fonti – sorprese dell'ultimo minuto escluse – appare certa. Sull'argomento, Poretti preferisce non sbottonarsi troppo in attesa dell'assemblea. Ci ha tuttavia concesso un'intervista di bilancio sulla sua lunga presidenza.
Signor Poretti, è vero che ha deciso di lasciare?
Finché non faremo l'assemblea preferirei non rispondere: spetterà a loro l'ultima e ufficiale parola. Diciamo che dopo ventitré anni è giusto che ci sia un rinnovamento. Ci sono importanti sfide e forse c'è bisogno di nuove generazioni per affrontarle. Forse ci vuole un approccio diverso rispetto al mio o a quello che aveva mio nonno quando ha aperto il negozio quasi cent'anni fa.
Ventitré anni sono tanti, durante i quali ci sono stati cambiamenti epocali.
Di cose effettivamente ne sono cambiate tante, purtroppo quasi tutte in peggio. È difficile generalizzare, perché ci sono sempre anche casi positivi che però sono delle eccezioni: negli ultimi trent'anni il trend, a parte qualche sussulto, è sempre stato al ribasso. E poi è cambiato tutto il contesto: internet era solo agli inizi ad esempio.
Quando è entrato in carica, il contesto era più florido comunque, giusto?
Direi proprio di sì. Certo, ci sono state delle crisi, come quella del 2001-02, ma rispetto a quanto successo negli ultimi anni era all'acqua di rose: si stava tutti meglio. Il primo vero colpo grosso è arrivato con la crisi finanziaria del 2008-09. Tutta l'economia cantonale ha sofferto alla crisi della piazza bancaria, alla quale è fondamentalmente dovuto il benessere che abbiamo in Ticino.
Anche il turismo dello shopping transfrontaliero forse era diverso?
Andava fasi alterne, a dipendenza dal cambio con la lira. Anni addietro c'è stato un periodo di boom anche per noi, soprattutto per certi prodotti che magari in Italia non si potevano trovare o c'erano ma costavano di più. Da molto tempo invece il ciclo è uno solo ed è favorevole all'Italia. A tal proposito vorrei però fare una puntualizzazione.
Prego.
Per una buona parte di prodotti, le differenze di prezzo fra noi e i nostri vicini sono minime, eccezion fatta per gli alimentari. Ad esempio, nel mio campo (la moda, ndr) siamo noi i primi che cerchiamo di adeguare i nostri prezzi a quelli di oltreconfine.
Oltre che di prezzi, la concorrenza era ed è anche a livello di orari.
È una questione che si trascina da molto tempo. Abbiamo cominciato con le prime discussioni sulla modifica della Legge sull'apertura dei negozi (per renderle più flessibili, ndr) quando sono entrato in carica. La legge precedente era del 1968 e alla fine degli anni Novanta si cominciava a sentire l'esigenza di adeguarla. Si iniziavano a chiedere deroghe per aperture speciali, che diventavano sempre di più trasformandosi quindi pian piano consuetudine. A quel punto si è capito che era necessario un nuovo quadro legale. Ma l'iter è stato molto lungo. La legge è entrata in vigore lo scorso 1° gennaio: ci sono voluto vent'anni.
Impressiona vedere quanto il mondo sia cambiato in ventitré anni. Riesce a immaginarselo fra altri ventitré?
Temo che per dei cambiamenti così sostanziosi come quelli che abbiamo visto, non dovremo aspettarne ventitré: saranno sufficienti cinque o dieci al massimo. Quel che crea ancor più difficoltà al settore è proprio la velocità del cambiamento, non il cambiamento in sé. Quelli ci sono sempre stati. Ma c'era il tempo di adeguarsi, di digerirli e assimilarli. Oggi questo tempo non c'è: lo si fa, ma nel frattempo si è già di nuovo in ritardo.
E la pandemia ha complicato le cose.
Esattamente. Adesso sto facendo gli acquisti per l'estate prossima. Ma sulla base di cosa devo fare le comande, impostare le quantità? È difficile. C'è poi un problema di scala.
In che senso?
Sentendo parlare taluni, sembra che il Ticino sia il centro del mondo. Ma siamo molto piccoli, se raffrontati al resto del pianeta. Se una bella iniziativa può funzionare in una grande città come Milano e Parigi, non è detto che abbia lo stesso riscontro anche a Lugano, perché manca la massa critica. Oltre a essere pochi, siamo frastagliati fra le diverse regioni.
Durante il lockdown c'è stato il boom: bisogna aggrapparsi all'online per sopravvivere?
Mah, si e no. Sì, l'evoluzione è questa, ma che il piccolo negozio riesca ad adeguarsi al trend è molto complicato. Certo, dipende dalla tipologia di prodotto, ma non è affatto scontato. Inoltre, se effettivamente qualcuno avvia il commercio online e questo funziona, a lungo andare potrebbe chiudere il negozio in centro città per aprire solo un magazzino in una zona periferica ma facilmente raggiungibile dai fornitori, con conseguenze sulla vita in centro.
Quali alternative vede?
È molto difficile da dire. I problemi sul tavolo sono tanti. Sono tutti bravi a lamentarsi, ma di soluzioni concrete e applicabili non è facile trovarne. Il commerciante per sua natura è ottimista, altrimenti non farebbe questo mestiere. Però bisogna anche essere realisti, capire quali sono i nostri limiti. E ricordare che nessuno ha la bacchetta magica. Una possibilità potrebbe essere sfruttare delle nicchie di mercato che l'online non riesce a fare, ma l'altra parte del gioco deve farla il consumatore.
Il consumatore dovrebbe responsabilizzarsi?
Sì, in un certo senso. Se il consumatore nei negozi non ci entra più, dopo non venga a lamentarsi che la città è vuota, che non ci sono più negozi e che non c'è nulla da fare. I negozi non esistono per fare ambiente, a meno che non venissimo sovvenzionati da qualcuno, ma allora diventeremmo folklore, non sarebbe più commercio. I negozi specializzati propongono prodotti di nicchia, particolari o lavorati artigianalmente e di una certa qualità. Ma se il consumatore finale quelle caratteristiche lì non le apprezza più, diventa complicato, perché la lotta sui prezzi dei prodotti di massa i piccoli negozianti non potranno mai farla.
È importante anche la cooperazione con le istituzioni e gli altri attori del territorio.
Indubbiamente, ma il nostro primo interlocutore rimane il consumatore, che deve entrare in negozio e acquistare. Possiamo avere ottimi contatti con tutte le istituzioni, ma se manca l'acquirente, manca la benzina. È quel rapporto lì che va curato e intensificato. Certo che se la massa farà capire di non volere più negozi, ciascuno trarrà le proprie conclusioni.
Non è impensabile un mondo senza negozi?
Mah, sa, le parti in gioco sono tante, non c'è solo il commerciante. C'è tutta una società che sta cambiando abitudini. Bisogna capire come all'interno di queste nuove situazioni riusciremo a collocarci. Per ora c'è sempre una parte della popolazione che apprezza il contatto umano, la consulenza del commerciante, il fatto di provare e toccare il prodotto. Ma quanto durerà?
Lei cosa crede?
Si ragiona per scenari. Uno è quello dove la gente si è abituata ad acquistare su internet, portando a una moria ancor maggiore dei piccoli negozi con relative conseguenze negative su turismo, ristorazione e vita delle città stesse. Un altro scenario è che ci possa essere una reazione contraria a quest'economia spersonalizzata, con un recupero dei valori umani e una ripresa della frequentazione dei negozi. Oppure potrebbero esserci delle vie intermedie, ma non è davvero possibile fare pronostici ora, in una società che cambia così in fretta.
Tornando alle sue dimissioni, col senno di poi crede che avreste potuto fare diversamente qualcosa?
Difficile da dire. Viviamo dei trend che non sono dettati né dalla Scl, né dalla Federcommercio, né dalla politica comunale o cantonale che sia. Sono tendenze pilotate a livello internazionale. Il mondo oggi è governato da giganti come Amazon o Google. Sono loro che pilotano le masse verso gli acquisti, riducendo le alternative. Attori che, per altro, pagano relativamente pochi contributi nei vari Paesi. Penso a mio nonno quando ha avviato l'azienda o ai miei genitori e a mio zio quando l'hanno portata avanti: hanno vissuto momenti molto difficili, come il periodo delle guerre lo shock petrolifero del 1973. In cent'anni di momenti difficili ce ne sono stati parecchi. Poi rispetto a noi sono partiti magari con meno, ma globalmente è stato un crescendo. Noi siamo la prima generazione da molto tempo che sta un pochino peggio dei propri genitori. E soprattutto, sono cambiate le prospettive: dandosi da fare, c'era quasi la certezza di stare meglio domani. Oggi non è più così. Che prospettive abbiamo?
A proposito di azienda di famiglia: lascerà la presidenza della Scl, ma resterà attivo professionalmente?
Sì, non ho guadagnato abbastanza per andare già in pensione (ride, ndr).