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'La terapia per il Covid? La somministrazione di umanità'

Intervista a Raffaele Mautone, infermiere specializzato del Cardiocentro di Lugano: dalla fuga dal lockdown lombardo al Nobel per la pace e al Papa

Raffaele Mautone infermiere Cardiocentro Covid
7 maggio 2020
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C'è una data che Raffaele Mautone, 47 anni, infermiere specializzato in emodinamica al Cardiocentro di Lugano non si dimenticherà mai. È il 7 marzo scorso quando all'ora di cena, dopo un'intensa giornata di lavoro in ospedale e dopo aver varcato la frontiera di ritorno nella sua casa nel Comasco, l'annuncio «in edizione straordinaria al telegiornale» del premier italiano Giuseppe Conte lo raggela: "Chiudiamo la Lombardia". «Erano giorni che avevo preparato una piccola borsa da tenere in auto con alcuni effetti personali – ci racconta quel momento –. Avevo parlato con mia moglie della possibilità di rimanere bloccato a Lugano e avevo convinto anche alcuni colleghi a fare lo stesso. Troppo allarmismo? Non so, avevo questa sensazione... Ricordo bene, erano le 21. I toni di quel discorso mi hanno particolarmente colpito, si parlava di chiudere la regione entro mezzanotte, così dopo il gelo totale iniziale ho guardato mia moglie, che oltretutto, anche lei infermiera, era in attesa di tampone (poi risultato negativo), ho fatto una veloce doccia e sono partito per Lugano. Essendo specializzato in Laboratorio Horten, occupandomi cioè della coronografia degli infarti, appartengo a una categoria dove siamo in quindici in tutto il cantone e quindi con un ruolo di responsabilità nel garantire il servizio non solo ai pazienti covid ma anche agli elettivi. La mia assenza avrebbe potuto causare una crisi nel sistema e perciò ho salutato i miei figli di 16, 15 e 10 anni, mia moglie, e sono uscito di casa. Il piccolo non si rendeva conto di quanto stava succedendo, era quasi una fuga la mia... ma avevo timore di trovare code in dogana, di incontrare disagi, blocchi, invece sono riuscito a raggiungere la Svizzera a mezzanotte meno un quarto».

Fuga dalla zona rossa

Un viaggio di qualche decina di chilometri ma in grado di provocare una voragine nei sentimenti: «In quel tratto di autostrada, da Chiasso a Lugano, ho passato uno dei momenti più intimi della mia vita perché da padre lasciavo la famiglia in una zona rossa d'Italia, con casi di coronavirus in aumento vertiginoso. Pensavo a Wuhan, alla stessa frontiera che la facevo tutti i giorni, con emozioni diverse da quelle provate quella notte». Una chiamata in corsia che è stata più forte di tutto, come quella dei suoi tre fratelli, tutti infermieri come il padre, generi e nuore compresi: «A mezzanotte e un quarto ero al parcheggio del Cardiocentro e lì ad aspettare me e i colleghi che si sono presentati c'erano il capo degli infermieri Stefano Bernasconi e il direttore Massimo Manserra che ci hanno accolto calorosamente. Trovarli lì mi hanno fatto percepire il loro sostegno e la loro fiducia, così che la situazione emotiva si è fatta subito meno pesante. Ho pernottato i primi giorni nelle camere messe a disposizione dal Cardiocentro poi in albergo. Ci sono stato una settimana, quando pensavo di passarvi un paio di mesi, perché come sappiamo le frontiere sono state poi 'addolcite' soprattutto per gli infermieri e i medici. Oggi più che mai, con trent'anni di professione sulle spalle, sono molto orgoglioso di prestare il mio servizio qui, dove mi trovo da sei anni, dopo i tredici passati al Sant'Anna di Como, dove continuano a lavorare due dei miei fratelli. Il Cardiocentro è stato fra gli ospedali che ha accolto pazienti covid; tutto il secondo piano era a loro dedicato così come una delle tre sale di emodinamica. Abbiamo trattato diversi pazienti, perché questa malattia, colpendo le coronarie, provoca problemi di embolia polmonare».

'Pensai che Codogno era solo la punta dell'iceberg'

In questa professione "del donarsi" Raffaele mette davanti a tutto, ancora prima della famiglia, la cura dell'altro. Una chiamata al servizio totale. Ma ci si poteva aspettare un impatto così forte? «Non me lo auguravo, però quando hanno iniziato a parlare dei primi casi di Codogno a mia moglie dicevo "questa è solo la punta di un iceberg". Avevo compreso che era una situazione già molto diffusa non solo in Italia ma in tutta Europa. Mi auguravo dunque di no, che, come altre pandemie, penso alla Sars, rimanesse localizzata in Cina, invece...». Con l'avanzare del virus, l'infermiere ricorda così gli insegnamenti del padre: «Siamo nati e cresciuti a Napoli, nelle case costruite dopo il terremoto del 1980. Noi fratelli non eravamo molti contenti, ma mio papà, essendo monoreddito, per permettere a tutti e quattro di studiare e andare all'Università aveva scelto quel quartiere perché si pagava poco d'affitto. Abbiamo capito da adulti l'importanza di essere cresciuti in un posto così. L'umanità l'abbiamo avuta in dote dai nostri genitori e quindi siamo riusciti a svilupparla, sa come si dice... il frutto non cade mai lontano dall'albero. Siamo cresciuti con esempi importanti. Certo da adolescente avevo vergogna di dire dove abitavo, c'era molta delinquenza in giro, abbiamo subito anche del bullismo, perché se non seguivi "quelle" regole passavi per quello strano. In realtà eravamo quelli che andavano a scuola. La normalità per noi era altro».

'Donarsi agli altri è piu contagioso del virus'

Nel 2000 il lavoro lo porta a Como e nel 2014 a Lugano: «Per la mia specializzazione il Cardiocentro era per me il top!». Poi all'orizzonte, che sembrava all'inizio appunto lontano, si profila la pandemia e per chi è infermiere la missione è una sola: «Donarsi agli altri è più contagioso del virus e la terapia dev'essere la somministrazione di umanità, un'umanità che però non dobbiamo tenercela dentro, non dobbiamo avere paura di dare una carezza, di ascoltare il silenzio di un paziente, di ascoltare le loro storie. Tenere una mano è trasmissione di una grande forza, l'unica che possiamo dare loro. Io non sono un religioso modello, ogni tanto salto la Messa, però la vicinanza nella fede mi ha aiutato a sopportare e a superare certi dolori. E poi il sudore, che per me ha un'accezione fondamentale perché significa fatica e impegno, che poi si trasforma in amore, quell'amore nel cercare di salvare una vita. Come dice papa Francesco è un'azione che ti riconduce alla speranza, la speranza di salvare delle persone. Il senso allora di questo virus? Non dev'essere lui contagioso ma l'amore. È l'altruismo: non voglio fare retorica, ma avendolo vissuto in queste ultime settimane è il mondo in cui vorrei vivere, un atteggiamento positivo verso le persone ma anche verso la natura, gli animali».

Quel sogno premonitore...

Ma in ogni realtà c'è sempre anche un sogno. Come quello che Raffaele ha avuto a metà marzo: «Probabilmente era dettato da una preoccupazione. Solitamente mio papà mi telefona ogni paio di giorni. Invece, da quando abbiamo cominciato con i miei fratelli, ad assistere pazienti covid, lui non si è fatto più sentire. Chiamavo mia mamma e chiedevo di lui e lei aveva sempre una scusa, è in giardino, è fuori, poi abbiamo capito: aveva paura di sentirci anche solo tossire... In quel sogno era impegnato a dare un cambio in ospedale e chi mi trovo come primo paziente? Madre Teresa di Calcutta che mi dice "respiro profondo e andate avanti, questa è la missione di tutti gli infermieri". Da buon napoletano, essendo scaramantico, ho pensato a qualcosa di brutto, a un messaggio premonitore, invece poi ho trovato la chiave delle sue parole, quel dedicarsi agli altri come lo faceva lei. Pensando allora alla nostra professione come a una missione ho pensato che il male non ci avrebbe colpito».

Le lettere degli infermieri al Papa

Ma il virus ha comunque colpito duro. Per questo Raffaele si è impegnato a raccogliere con suoi fratelli i pensieri degli infermieri, anche piccole frasi, «quelle lettere che rappresentano le lacrime e insieme a una divisa, che rappresenta il appunto il nostro sudore, vorremmo donarli a papa Francesco, un invito a partecipare che estendo dunque a tutti i colleghi ticinesi. Tirar fuori i pensieri è spesso condividere un dolore che hai visto e vissuto, condividere una preziosa testimonianza. Papa Francesco ha detto che se Gesù fosse uomo sarebbe infermiere. Se ci chiamerà andrò con mio fratello a Roma a piedi!».

Ora che l'onda sembra attenuarsi, e le corsie ritrovano un certa normalità, il ricordo va dunque ai quei giorni di grande emergenza, di preoccupazione non solo in ospedale ma anche a casa: «I miei ragazzi sono cresciuti in fretta, hanno imparato a farsi da mangiare, quando anche solo una nostra carezza poteva essere pericolosa in caso di contagio. Abbiamo passato un periodo di isolamento nelle nostre stesse quattro mura, sempre attenti a come muoverci e a spiegare ai figli la necessaria 'distanza'. Loro seguivano i tg, leggevano le notizie e ti chiedevano spesso se io e mia moglie ci sentivamo la febbre, anche in loro vi era molta ansia. Ma i tamponi fortunatamente sono sempre stati negativi».

Un Premio Nobel per i sanitari

Gesti spesso eroici, gratuiti, per alcuni costati anche con la vita. È per questo che in Raffaele si è fatto largo un pensiero: «Vorrei invitare gli enti competenti ad assegnare il prossimo Premio Nobel per la pace a tutti gli infermieri come era successo nel dopoguerra per la Croce Rossa Svizzera. Quest'anno cade pure il bicentenario della nostra professione, quale migliorare occasione per ricordarla. Siamo le figure che sono più vicine al paziente, coloro che tengono la mano, a volte li abbiamo anche accompagnati nella morte e in un addio senza la possibilità di un parente accanto. Siamo stati testimoni di un dramma». Infermieri che fra silenzi e condivisione sono stati faro in uno dei momenti più bui della storia recente: «Io, come altri colleghi di una certa esperienza, abbiamo assunto quel fondamentale ruolo di conforto verso i più giovani. Sono stato molto vicino ai giovani infermieri, ventenni, che hanno passato ore con i pazienti covid. Li abbiamo supportati prima che iniziassero il turno, abbiamo cercato di infonder loro quel coraggio necessario. Il Ticino dev'essere fiero di questi ragazzi! Al Cardiocentro abbiamo fatto squadra, dai direttori ai responsabili ai coordinatori, tutti ci siamo stati veramente vicino. Tra di noi non c'erano più infermieri, medici, ausiliari, eravamo tutti uniti per far fronte a questa cosa». 

Fra famiglia e futuro

E in famiglia? «Parlare d'altro è stato impossibile. Ho fatto fatica con mia moglie, e abbiamo avuto non poche discussioni. In questo periodo i discorsi sono sempre stati correlati a questa problematica. Abbiamo cercato di viverla con maggiore distacco ma alla fine era un circolo vorticoso. Ho fatto fatica lo ammetto, uscivo con il cane per staccare. Facendo anche lei infermiera ed essendo anche lei in contatto con pazienti covid eravamo, e lo siamo ancora, sempre in allerta». Il futuro? «Il futuro io lo vedo sempre positivo. È normale che è cambiato qualcosa, i distanziamenti sociali rimarranno e sarà molto più difficile abbracciare un amico o un conoscente. Ma ci sono anche dei lati positivi: la direzione che ci è stata indicata, ovvero maggiore rispetto per il mondo intero. Credo che a molte persone lascerà un segno. Non posso però non soffrire per la scomparsa di una generazione di anziani che erano i nostri ricordi, la nostra saggezza, il nostro punto di riferimento, non è giusto. Potevano ancora darci un messaggio di guida, erano il nostro porto sicuro, ora dobbiamo farci carico noi di questo e trasmetterlo alle nuove generazioni».